Le Cose della nostra Terra
di Bernardino Cesaretti
Le suonavamo solo per due giorni l’anno ma ce le ricordiamo benissimo le Raganelle della Settimana Santa. A quei tempi il parroco con il suono delle campane ritmava il procedere dei giorni dell’alba al tramonto e tutti, attraverso quel campanile, sapevano ore e liturgia di ogni giornata e, se impegnati nei campi o nei boschi, potevano comunque bisbigliare una preghiera fermandosi un attimo e magari togliendosi il cappello in senso di rispetto e di devozione.
Così alle sette del mattino suonavano tre volte a messa ed il rintoccare dei primi due suoni era identico mentre il terzo suono terminava “ co li ‘ntocci” . Così se per caso ti eri dimenticato quante volte avevano già suonato le campane, capivi che era l’ultimo avviso e che stava per iniziare la messa. Poi a mezzogiorno di nuovo le campane ti davano l’ora e ti aiutavano a dire un’alta preghiera come pure alle cinque del pomeriggio quanto il parroco suonava L’ Ave Maria e “ ‘ntoccava” per la Funzione. Questa era la giornata classica; poi nei giorni particolari suonavano anche per le messe degli “uffizi” che le varie famiglie ordinavano ai preti e suonavano “ a ‘ntoccu” per ogni paesano che moriva.
Il sabato alle undici suonava la campana piccola per chiamare i bambini a “drottina” , e nei giorni dei tridui e delle novene suonava alle sei di pomeriggio. Nei giorni festivi invece il campanile quasi “scoccodellava” perché suonava tre volte per ogni messa “piana” e poi tre volte per la messa cantata “in terza parata” e poi tre volte per il “vespro” per poi terminare con il suono per la Funzione serale.
Nelle ricorrenze con le processioni, come il Corpus Domini e la Festa del Patrono, suonavano a distesa per tutta la durata della processione con i campanari che andavano a suonarle direttamente in cima al campanile. La campane suonavano anche quando arrivavano i grossi temporali estivi . Dicevano “pe corrompe l’aria “ così la pioggia violenta si allontanava senza rovinare i raccolti ancora in piedi nei campi . In poche parole le campane suonavano in continuazione ma si bloccavano per due soli giorni l’anno e ciò accadeva il Venerdì ed il Sabato Santo in segno di rispetto per la morte di Gesù Cristo.Si diceva “ se leganu le campane” ed in effetti le corde a base campanile venivano legate tra loro dopo la messa in cena domini la sera del Giovedì Santo e lasciate così fino alla Pasqua di Resurrezione. Se per caso vi domandate come facessero in quei due giorni i paesani abituati al continuo quotidiano suggerimento delle campane a gestire al meglio gli orari, la risposta è bella e pronta.
Chissà da quanto tempo , ma io credo da sempre, avevano inventato le Raganelle e tutti i ragazzini ne avevano una, costruita o regalata dal nonno, e la suonavano andando su e giù per il paese alle ore giuste urlando “Sona la prima vorda a messa” …..e dopo cinque minuti “Sona la seconda vorda a messa” ……e poi ancora “Sona l’urdima vorda a messa”
In altri orari suonavano le Raganelle e urlavano “ Sona a miezzugiorno” oppure “ E’ sonata l’Ave Maria” oppure ……. “ E’ l’ora de li sippurghi”.E così tutti i paesani si muovevano in sintonia anche senza il suono delle campane grazie alle Raganelle dei ragazzini. Ricordo la mia Raganella doppia; realizzata con due ruote dentate solidali con il manico che si faceva ruotare velocemente agitando in senso orario la mano destra. Così velocemente da far si che le due ruote dentate battevano su due piccole e sottili tavole rigidamente chiodate ad una specie di cassettina che svolgeva la funzione di cassa armonica e che amplificava il rumore delle vibrazioni delle tavolette ad ogni passaggio da un dente all’altro.
Esistevano anche a 3 ruote dentate e si chiamavano “li Raganuni”.Terminavamo di suonare le Raganelle per annunciare la messa di Resurrezione a mezzanotte e poi erano le campane, una volta “resciote”, a suonare a distesa per annunciare il Cristo Risorto e per ricominciare la loro attività quotidiana per un anno intero.
(Un grazie ad Alberto Ceci ed Emilia De Santis possessori delle Raganelle in foto )
Mio padre la Svecciatrice l’aveva comprata da una signora di Piedelpoggio che si era trasferita ad Ostia e questo accadeva nella tarda primavera del 1954. Ricordo che quando la portò a Vallimpuni stava legata sopra il carretto trainato dalla somara di nonno Angelo e mi sembrò subito un grosso macchinario.L’idea era quella di utilizzarla per mondare il grano di casa ma anche di affittarla agli altri contadini che ne erano sprovvisti.
Fu riposta nella cantina che ha l’ingresso lì sotto l’arco di casa mia e dopo un paio di mesi, una volta finita la trebbiatura nelle aie del paese, iniziò a lavorare con il suo ripetitivo rumore; un misto di battuta del corvello sulla ruota dentata per far scendere i chicchi di grano e di roteare e strusciare dei chicchi dentro il grosso cilindro in ferro per la selezione.
Ovviamente tutti i movimenti del macchinario erano mossi da un’ unica manovella montata sulla parte frontale della Svecciatrice che manualmente veniva fatta girare in senso orario con discreto affaticamento dell’avambraccio del manovratore. Ricordo il grasso che contornava la ruota dentata per minimizzare , per modo di dire, l’attrito tra le parti metalliche.
All’epoca, dopo la trebbiatura, il grano che entrava in cantina doveva essere svecciato cioè mondato e ripulito dei tanti semi estranei ( di veccia appunto ) anche perché i diserbanti non esistevano ancora e se si voleva la farina bianca bisognava andare al mulino con il sacco pieno solo di chicchi di grano. Per di più se si voleva seminare il grano per la stagione successiva ( pe li suminti) si doveva assolutamente svecciare il grano.
Ricordo che allora andava per la maggiore un tipo di grano denominato “la saracola” che si presentava con dei bei chicchi tondeggianti e che (facià pure un dieci se la stagione era stata bona). Produceva cioè un quintalaggio di raccolto 10 volte superiore a quello della semina.
Ogni famiglia quindi doveva svecciare il grano e mio padre, in uin piccolo quaderno nero si appuntava i giorni di lavoro e presso chi andare a svecciare. Iniziavamo con la svecchiatura del nostro raccolto e poi, caricando e scaricando la Svecciatrice ogni volta dal carretto trainato dalla somara di nonno Angelo, andavamo presso le cantine (le vote) di quelli programmati nel quadernino nero.
Avviamente ciò non accadeva solo a Vallimpuni ma ci recavamo anche in altre frazioni dell’Altipiano e puntualmente, alla fine di ogni commissione, mio padre appuntava quanti quintali di grano erano stati svecchiati per poter conteggiare quanto riscuotere. Ma allora la liquidità era una parola difficilissima e si doveva poi ripassare più volte per restringere quei quattro soldi.
Le fasi operative della svecciatura consistevano nel posizionare e livellare la Svecciatrice, nel porre sotto di essa i cassetti di raccolta delle selezioni secondo una numerazione progressiva, nel riempire con le sementi da svecciare l’imboccatore posto in alto sopra il corvello, nel verificare che il corvello fosse giustamente alimentato regolando la bocchetta di scarico dall’imboccatore e nell’avvitare la manovella che poi a fine corsa iniziava a far muovere tutto il macchinario.Ti sedevi davanti alla Svecciatrice sopra una banchetta ed iniziavi a svecciare dando la giusta velocità al cilindro che carellava e ruoteava i chicchi fino a depositarli nei cassetti di selezione.
Ovviamente dopo circa un ora e mezzo eri cotto e allora un secondo addetto si poneva al tuo posto mentre tu controllavi se l’imboccatore era pieno di sementi, se il corvello si intasava e se i cassetti di raccolta erano da svuotare.
La padrona del granaio (se se lo recordava) portava una bottiglia di vino e spesso c’era anche l’invito a pranzo.
Ma anno dopo anno diventava sempre più difficile “accudire” la Svecciatrice e, dopo alcune stagioni nelle quali veniva data direttamente ai pochi che ancora dovevano svecciare il grano, fu rivenduta da mio padre a Zi’ Pietrella e la Strava . La Svecciatrice dopo tanti anni è ancora funzionante e tuttora mio cugino Antonio la utilizza per le sue selezioni di semi.
L’ho rivista ed è ancora bella e funzionante ma non esce più . Chissà forse si sente inutile o si vergogna e poi (chi lu retrova più lu carretto co la somara co tantu de finimenti ; e po’ do stau li contadini che je serve lo granu pe li suminti ?)
Bernardino Cesaretti (Ce.Na.)