“MIO PADRE MI DISSE”
TRADIZIONE,
RELIGIONE E MAGIA SUI MONTI DELL’ALTA SABINA
“Sono questi gli ultimi echi d’un vecchio mondo, cui
noi già diciamo addio per sempre, son gli ultimi ricordi di tempi, ch’eran pure
sì belli nella loro semplicità e nelle loro costumanze gioconde e pittoresche.
La vita, sfrondata delle antiche illusioni ed abitudini, si fa seria e
monotona, e a noi, figli del secolo delle macchine e del materialismo, non
resta che un vuoto, un «desiderio vano di bellezza antica».” Domenico Spadoni, 1899
Questo breve profilo culturale della società rurale dell’altopiano
leonessano è stato ideato, diretto e realizzato da Mario Polia, antropologo,
storico delle religioni, etnografo, direttore del Museo Demo-etno-antropologico
della città di Leonessa, con la collaborazione di Fabiola Chávez, antropologa
peruviana specialista nel mondo femminile rurale.
Il nostro lavoro s’è avvalso di una serie di interviste
sul campo che hanno coinvolto rappresentanti autorevoli dell’antica cultura
agricolo-pastorale, depositari della memoria e della tradizione: anziani
contadini e allevatori, o quelli che un tempo lo furono. Uomini e donne del
popolo hanno spontaneamente collaborato con noi per renderci partecipi di
quella che, fino a ieri, è stata la loro cultura. Essi ci hanno permesso di
penetrare in un mondo in cui, privi di guida, avremmo rischiato di perderci, di
non capire, o di malinterpretare.
Non è stato semplice, per molti di loro, comprendere il
perché della nostra indagine, confidarci i loro segreti, confessare le paure
d’un tempo superando il pregiudizio d’essere considerati superstiziosi o
ignoranti. Anche per questo li ringraziamo e, accingendoci a concludere questa
prima fase della nostra ricerca, li ringraziamo anche per quello che vorranno
ancora rivelarci e farci comprendere.
Poiché c’è ancora molto da conoscere.
Perché l’intervento sull’Appenino, a fianco di uno
specialista italiano, di un’antropologa e per di più straniera? Si tratta di un
fatto insolito, anzi “rivoluzionario” nella nostra cultura -abituata a studiare
gli “altri” ma assai poco incline a farsi studiare dagli “altri”- che si
giustifica in base a tre motivi fondamentali: primo, si tratta di una donna;
secondo, la donna in questione è una specialista in antropologia femminile;
terzo, è straniera. L’essere donna garantisce quella possibilità di dialogo fra
donne, su temi riguardanti la donna, altrimenti impossibile o assai difficile
per un uomo, specie in un’ambito sociale ancora ampiamente conservatore come
quello leonessano. L’essere donna, inoltre, permette di poter contare su una
prospettiva complementaria, femminile. La specialità della mia collega, che ha
già lavorato con me per un decennio fra i campesinos sulle Ande del
Perù, garantisce il necessario rigore scientifico sia nella fase di raccolta
dei dati sia nella loro successiva elaborazione. Il fatto d’essere straniera,
infine, permette una visione più disincantata della cultura in esame, con meno
coinvolgimenti emozionali, meno etnocentrismo e una mentalità spontaneamente
aperta alle comparazioni. Eppoi: agli inizi di un millennio che si dichiara
globalista, abbiamo voluto sfruttare uno dei (pochi) lati positivi della
globalizzazione: la sinergia culturale nella ricerca scientifica.
In questa prima fase del lavoro abbiamo privilegiato
l’esposizione sistematica e l’interpretazione del materiale prodotto dalla
ricerca sul campo, esposizione previa a qualsiasi altro lavoro e ricerca, come
scriveva Antonio De Nino: “Credo che storie comparate di usi e costumi non si
possano scrivere largamente e seriamente, se prima non si facciano delle complete
e serie raccolte di usi e costumi dei paesi più caratteristici”. (De Nino 1988, II: 7)
La fase della comparazione inter-culturale, dati i limiti fisici di
questa pubblicazione, qui è presente solo in embrione ed è stata limitata alle
comparazioni più evidenti e significative con le regioni, per motivi storici e
posizione geografica, più coinvolte nella dinamica culturale: Lazio (Sabina),
Abruzzo, Umbria, Marche, Roma ed agro romano. Anche la ricerca bibliografica è
stata ridotta all’essenziale. In realtà, ognuno degli argomenti qui trattati
meriterebbe una monografia a sé. Un lavoro tutto da fare che, spero, saremo
presto in condizione d’intraprendere.
Una domanda di Ernesto De Martino. Agli inizi degli anni ’50 Ernesto de Martino scriveva: “L’attuale risveglio di interessi per la vita culturale tradizionale delle classi popolari ha bisogno di essere ancora metodologicamente fondato, e di giustificarsi in modo serio e persuasivo di fronte alla cultura nazionale. Perché, oggi, dobbiamo raccogliere il nostro «folklore», o, come direi meglio, il nostro materiale etnologico nazionale? Perché dobbiamo studiarlo? Che cosa significa questo nostro studio nel quadro generale della attuale cultura italiana? Se non risponderemo a queste domande rischiamo di cadere nella sfera delle curiosità erudite, o anche di un romanticismo fuori stagione”. (De Martino 1953: 20)
Dal tempo in cui Ernesto De Martino si poneva queste domande sono trascorsi quasi cinquant’anni sicché, per tentare di dare ad esse una risposta adeguata, occorre ri-ubicare cronologicamente il senso di quell’“oggi”.
Quando De Martino scriveva, nell’immediato dopoguerra, esisteva ancora in Italia una classe rurale in possesso delle proprie tradizioni. Sentite e coscientemente vissute, queste costituivano una risposta contadina al mondo urbano, rendevano possibile un’alternativa pienamente valida nell’ambito della cultura rurale nella quale la “cultura egemone” non aveva ancora fatto breccia. Per questo motivo il processo di deculturazione poteva considerarsi ancora agli inizi e, comunque, non aveva ancora intaccato in profondità il cuore della tradizione popolare. Non aveva ancora sostituito valori e forme della cultura egemone a quelli della cultura rurale, né si era ad essi sovrapposto. Forte era, soprattutto, il sentimento religioso; sentita l’osservanza del calendario liturgico; praticato il culto dei santi patroni delle attività agricole, pastorali, artigianali e di quelli preposti alla tutela del ciclo vitale umano; venivano celebrate scrupolosamente le feste in onore dei patroni del paese o del villaggio. Era assidua la fedeltà alle pratiche devozionali famigliari e di gruppo che spesso, come si vedrà, s’esprimevano mediante formule di preghiera tramandate oralmente di generazione in generazione. Forte era ancora la fede nell’efficacia dei riti della Chiesa volti a contrastare i flagelli naturali, come le “Rogazioni” per impetrare la giusta quantità delle piogge primaverili e stornare la siccità; le benedizioni per liberare il bestiame dalle malattie o il raccolto dai bruchi, dalle locuste ed altri animali nocivi, o per scacciare i topi dai granai; le benedizioni sulle opere e sui prodotti del lavoro dell’uomo. “Sembra che sia tutto diverso, oggi, a quello de qualche anno fa, non si crede più. Per esempio prima, quando veniva la grandine, de corsa andavamo a sona’ la campana e se dicevano pure l’orazioni dentro la chiesa pe’ ferma’ questa grandine, ‘nvece oggi...” (Inf. 21)
Il rispetto verso la religione e le tradizioni religiose della famiglia, o del villaggio, era trasmesso ai figli mediante l’esempio e l’educazione famigliare. Esso, assieme all’osservanza di una condotta etica fondata sui precetti religiosi, era considerato condizione fondamentale perché Dio e santi benedicessero le attività umane, facessero prosperare i beni necessari alla vita, difendessero gli uomini dalle calamità naturali. Si credeva, infatti, che solo un corretto rapporto fra umano e divino garantisse l’ordinato svolgimento dei cicli stagionali e naturali e, quindi, la salute e l’abbondanza. Questa fede costituiva e, laddove ancora esiste, costituisce l’elemento caratteristico che permette di affrontare lo studio della cultura rurale dell’Appennino laziale usando strumenti e metodi impiegati per lo studio delle società “tradizionali”. Metodi che, oltre agli strumenti d’indagine propri all’etnografo, etnologo e demologo, debbono avvalersi necessariamente della prospettiva antropologico-religiosa ed usare strumenti di analisi pertinenti sia a quella disciplina che alla storia delle religioni.
Oltre alla persistenza dei valori religiosi nella cultura rurale, fino all’immediato dopoguerra ancora forti e sentiti erano i legami col microcosmo della famiglia, profondo il rispetto per gli anziani e per il mondo di valori che essi veicolavano ed esprimevano nell’universo famigliare e sociale. Quei valori, in sostanza, si rifacevano all’idea romana di “tradizione” identificata col mos maiorum e la perpetuavano nel tempo. L’anziano costituiva, nell’ambito famigliare e nella società rurale, l’asse di trasmissione dei valori tradizionali, il ponte fra passato e presente. Con la sua persona e la propria vita forniva la prova dell’efficacia e vigenza della tradizione poiché egli incarnava concretamente l’identità culturale non solo della famiglia e del villaggio ma dell’intera classe rurale. L’anziano serviva da esempio e pietra di paragone nell’ambito etico e religioso e metteva, inoltre, a disposizione del gruppo il tesoro prezioso della sua esperienza di agricoltore, allevatore, artigiano, padre e sposo. Suo compito era testimoniare i valori fondanti della famiglia e della società e, trattandosi di valori etici e religiosi, tale compito era per sua natura sacro. Per raggiungere questo scopo, oltre che dell’esempio, l’anziano si serviva della parola utilizzando quel formidabile strumento di educazione che è la favola e il racconto, spesso in rima, narrato accanto al fuoco della sera.
I fattori della deculturazione. Trascorso quasi mezzo secolo dalle parole di Ernesto De Martino, i profondi mutamenti sociali e culturali avvenuti in questo lasso di tempo hanno alterato la fisionomia di quella che, una volta, poteva ancora chiamarsi “cultura popolare”. Accenneremo soltanto ad alcune fra le molteplici ragioni di questi mutamenti circoscrivendo il discorso all’ambito di interesse di questo saggio: l’intensa campagna promossa dallo Stato contro l’analfabetismo che ha permesso a larghi settori del contado l’accesso alla fruizione della cultura scritta e dei giornali; l’incremento della presenza delle scuole nelle campagne e l’obbligo dell’istruzione obbligatoria; la diffusione capillare dei mass media, soprattutto la radio e la televisione la quale, poco a poco, nel decennio degli anni sessanta entra in quasi tutte le famiglie dell’altopiano leonessano; il dissesto delle antiche strutture sociali prodotto dalla forte emigrazione dei giovani verso le aree urbane, emigrazione che ha generato trasformazioni profonde nell’organizzazione famigliare del lavoro e, spesso, ha originato su larga scala, assieme allo spopolamento dei villaggi, il collasso delle attività produttive tradizionali. Allo stesso tempo, l’emigrazione ha incentivato il confronto fra cultura rurale e cultura “cittadina”.
Mano a mano che le frazioni -“le ville”- andavano svuotandosi, essendosi fortemente ridotto il numero di abitanti, quelle fra di esse che contavano con un parroco locale (come Colleverde, Vindoli, Terzone, Viesci, Casanova, Vallunga, San Clemente, Piedelpoggio, Sala, Albaneto, Villa Bigioni, Ocre, ecc.) si videro private della presenza stabile del sacerdote che, ogni giorno, mediante la celebrazione della liturgia e il contatto diretto col popolo, teneva vive le tradizioni religiose nei vari villaggi. La scomparsa dei parroci locali accelerò notevolmente il processo di deculturazione religiosa. Oggi la presenza del sacerdote nel contesto rurale si riduce alla messa domenicale (spesso celebrata solo l’estate), ai funerali e a qualche raro battesimo. Mentre scriviamo, l’organico dei sacerdoti stabili sull’altopiano si riduce a tre membri dell’Ordine dei Frati Minori.
Uno dei prodotti della deculturazione, specie religiosa, e dell’emigrazione fu l’allentarsi progressivo dei nodi sacri che segnavano a intervalli rigorosamente scanditi lo scorrere dei mesi: le feste dei santi patroni dei villaggi, le feste dei patroni delle attività pastorali, le processioni dei morti, le novene, ecc., ma anche le feste in occasione del battesimo, della prima comunione o del matrimonio, del Carnevale, della mietitura e quella che accompagnava l’uccisione del maiale.
La festa rappresenta un momento importante di coesione del demos: il clima festivo favorisce intensamente la socializzazione fra i membri dello stesso gruppo e fra questi e i convenuti alla festa; i vincoli di parentela, specie quelli che legano parenti lontani, si rinsaldano; molti fidanzamenti si contraggono in occasione delle feste religiose e dei balli che costituivano la controparte profana delle stesse. La festa, inoltre, specie quella religiosa, costituiva un momento importante per la riaffermazione dell’identità culturale della classe rurale e del villaggio che si stringeva compatto attorno ai suoi santi ed alle proprie tradizioni. Questa identità riguardava la coscienza di appartenere al credo comune e, in senso più ampio, la consapevolezza d’esser parte d’una tradizione comune a tutta la classe rurale, attiva nello spazio conosciuto della vita quotidiana come anima che vivifica il corpo in ogni sua parte, come logos riconosciuto e comprensibile da tutto il popolo.
Nella festa religiosa, inoltre, il tempo lineare della storia è trasceso ed è raggiunto il tempo della storia sacra i cui eventi la festa riattualizza ciclicamente: il passato confluisce nel presente agendo come eterno presente immune da decadenza ed oblio, pregno di significato e di forza. I miracoli divengono di nuovo possibili. Dio e i santi si avvicinano all’uomo. E l’uomo s’avvicina ai suoi simili.
Tornando al ruolo svolto dalla radio ma soprattutto dalla televisione nel processo di deculturazione, gli stessi nostri informatori indicano come fattore specialmente incisivo l’impatto dei programmi televisivi soprattutto sui bambini e sui giovani. Gli anziani, infatti, nelle nostre interviste ripetutamente dichiarano che quando la famiglia, invece di raccogliersi alla sera attorno al fuoco del camino, iniziò a riunirsi attorno al televisore, cessò nei bimbi quasi all’improvviso l’interesse per la fiaba e i racconti tradizionali. Ad esso si sostituì quello per i cartoni animati e per i films. Alla voce dell’anziano si sostituì quella dello speaker televisivo. Agli esempi della tradizione si sostituirono quelli dei divi assurti al ruolo di nuovi eroi culturali. A un ethos si sostituì un ethos diverso e spesso opposto. In tal modo, poco a poco, venne meno il senso di rispetto nei confronti dell’autorità dei genitori e degli anziani e vennero posti in discussione i valori fondanti della tradizione. Molti degli anziani da noi intervistati hanno vissuto l’entrata della televisione nella famiglia come l’irruzione violenta del pubblico nel privato -certo non priva di un suo fascino- sentendola come la sostituzione dei personaggi “cittadini” del piccolo schermo ai personaggi reali della vita quotidiana della famiglia rurale. Questa sostituzione rappresentò, per essi, quella dei valori della cultura ufficiale “cittadina” ai valori della cultura tradizionale dell’altopiano.
È significativo, da questa prospettiva, sia il termine figurato con cui oggi gli anziani qualificano la televisione -“lu sfasciafamije”- sia l’espressione di una nostra anziana interlocutrice che situa giustamente il processo di disarticolazione della cultura rurale nel periodo di un paio di generazioni: “allora non c’era ‘sta disgraziata de televisione che è la rovina de li ragazzi, allora se diceva il rosario vicino al fóco, specialmente d’inverno (...) li fiji mia l’hanno fatto, ma li fiji loro...” (Inf. 21)
Vi è inoltre da dire che spesso gli anziani, lasciati soli in casa mentre gli altri membri della famiglia lavorano, trovano per ore ed ore nella televisione un passatempo che non richiede sforzo, come la lettura, ed una compagnia che mitiga in qualche modo la loro solitudine. Lo stesso accade molto spesso coi bambini, abbandonati davanti alla televisione mentre i genitori sono impegnati altrove, sicché l’assorbimento di cultura diffusa dai mass-media è senz’altro prevalente e contribuisce non poco alla deculturazione degli anziani e all’inculturazione dei piccoli.
La deculturazione del sacro. Paralellamente alla diffusione dei mass media, al diffondersi della cultura scolastica e quasi negli stessi anni, ossia nei decenni dei sessanta e settanta, i profondi mutamenti intervenuti nel seno della Chiesa a causa delle innovazioni prodotte dal Concilio Ecumenico Vaticano II non mancarono di influire incisivamente sul vissuto religioso della popolazione rurale destrutturandolo e trasformandolo secondo il senso di una modernità proposta e quindi imposta dall’alto al popolo come necessario rinnovamento della Chiesa nel segno dell’autenticità. Particolarmente sentito dalla classe rurale fu, a questo riguardo, l’abbandono dei riti tradizionali fino ad allora eseguiti secondo il canone del Rituale Romanum, riti che assicuravano la sacralizzazione delle principali attività lavorative, dal lavoro nei campi a quello della fornace per ottenere la calce (cargara); dal lavoro nella stalla o sui pascoli alla fabbricazione delle tegole; dal lavoro del fabbro, del calzolaio, della tessitrice, dell’apicoltore, a quello del “vergaro” che soprintendeva alla produzione del formaggio. Quasi da un giorno all’altro vennero a mancare le formule liturgiche che da sempre assicuravano la protezione del raccolto contro la grandine e le tempeste; quella della casa contro i fulmini; dei campi e dei villaggi contro le inondazioni; della donna in travaglio di parto, o la purificazione della puerpera quand’era trascorso dal parto il tempo previsto. Venne a mancare il conforto della protezione rituale del malato; cessarono le antiche benedizioni del pane, del lardo e delle uova e quelle impartite sui granai dov’era stipato il raccolto; le benedizioni dei pascoli, della stalla e perfino della casa.
Fu sentito l’abbandono del latino come lingua liturgica che, per la sua alterità rispetto al linguaggio di tutti i giorni e per la sua natura di veicolo di espressione del sacro incuteva rispetto ma nei confronti della quale, allo stesso tempo, il popolo nutriva un rapporto di quotidiana frequentazione. Ancora oggi, ad esempio, nella novena in onore del santo locale, il cappuccino Giuseppe da Leonessa, accanto alle strofe del canto popolare in italiano semiculto viene recitata da tutto il popolo, in latino, la supplica al santo e questa recitazione, cantata dall’assemblea e dall’officiante, è vissuta con particolare intensità. Alla solennità secolare dei riti e della musica sacra, cancellati come da un improvviso colpo di spugna, si sostituì il sacro socializzato, volgarizzato, semplificato ma anche impoverito nelle sue espressioni, privato della sua magnificenza e fascino: valori secondari, certo, dal punto di vista metafisico, ma importanti se considerati dalla prospettiva popolare.
Il dio dei teologi -l’idea di un dio più attento alla persona e alla dimensione sociale ma, paradossalmente, più distante dal popolo- si sostituì al dio degli avi, padre solerte e benevolo ma terribile nei castighi, signore della neve, della pioggia, della folgore, del sole. Un dio dal cui volere dipendeva l’ordinato alternarsi delle stagioni, la fertilità della terra, la fecondità del bestiame, la buona riuscita dei matrimoni, la crescita dei figli; il cui volere poteva essere propiziato con la preghiera tramandata dagli anziani, sacerdoti del culto domestico, coi gesti abituali e sentiti della devozione popolare oltre che dalle preghiere celebrate dall’officiante. Un dio-bambino che non disdegnava di assidersi, la notte di Natale, sulla seggiola che il padre sistemava per lui accanto al rinnovato fuoco, prima che la famiglia andasse a dormire. Il dio dei teologi, sebbene idealmente più vicino all’uomo, alle necessità ed alle ragioni dell’uomo, rivendicò per sé come controparte il diritto all’esclusività del culto e dell’amore dei suoi figli a detrimento del culto agli angeli e ai santi. Questi da sempre erano sentiti dal popolo come intermediari fra Dio e l’uomo, fra la dimensione della terra e quella dell’infinitamente distante. I santi erano i punti di riferimento ideale in ogni circostanza; “eroi culturali” cristiani che inaugurarono e santificarono ogni umana attività; patroni d’ogni lavoro, custodi in ogni frangente, avvocati cui ricorrere in ogni necessità. Saghe popolari, agiografie apocrife, ne tramandavano gesta ed esempi.
Il culto a Giuseppe, santo cappuccino leonessano, “lu santu nóstru”, rimase tuttavia pienamente valido, tetragono ad ogni rinnovamento, conservando le forme tradizionali. Accanto al culto al santo locale rimase vigente quello a Sant’Antonio abate, protettore del bestiame e degli animali domestici. Il culto tributato ad altri santi, invece, come a Santa Barbara, a Sant’Anna o a Santa Scolastica, a San Martino o a San Pasquale, poco a poco si svuotò di significato e decadde fino a scomparire quasi del tutto dall’ambito della religiosità popolare. Una nostra informatrice commenta in modo eloquente: “Sembra che la religione sia aumentata, invece s’è allontanata.” (Leonessa, inf. 5)
Per quanto riguarda il diavolo, necessario antagonista di Dio nella fede popolare, il suo ruolo, il significato della sua latente e temuta presenza, l’efficacia della sua azione non furono certamente persi di vista ma, di pari passo con la riforma post-conciliare e con l’avanzare della destrutturazione della cultura rurale prodotta dai fattori cui abbiamo accennato, vennero drasticamente ridimensionati.
Il diavolo, un tempo, faceva parte dell’ordine naturale delle cose assieme a Dio, come afferma un anziano agricoltore di Casanova: “Il diavolo esiste. Gesù esiste. So’ cose che ce stanno...”. (Inf. 37)
Un tempo il diavolo era dietro l’angolo, dietro ogni angolo; si celava nell’aspetto florido d’un vitello, o nel secchio colmo di latte.
Faceva capolino fra i seni turgidi delle madri esponendo bestie e allevatori, madri e lattanti ai danni dell’invidia.
Si nascondeva dietro il timido sorriso d’una ragazza, o ammiccava da sotto il lembo d’una gonna sollevata dal vento inducendo al peccato.
Si celava nel mazzo di carte da gioco, o nella bottiglia di vino in osteria spingendo alla bestemmia e alla lite.
Attendeva, primevo e paziente, che fame e disperazione gettassero i poveri fra le sue braccia.
Il
diavolo faceva quotidianamente irruzione nel mondo degli uomini dopo l’ultimo
rintocco della campana del vespro e dopo l’ultimo raggio di sole e la gente
diceva: “All’avemmaria, ugnunu a casa sia”. Allora gli usci si
serravano, gli ultimi viandanti rincasavano in fretta e il signore della notte
col suo corteggio di dannati, streghe e mannari, scorrazzava liberamente per le
viuzze buie dei borghi e in quelle dell’immaginario popolare. Oppure aspettava,
paziente, negli anfratti solitari dei monti, dove anche di giorno regna la
penombra e non giunge il suono benedetto della campana, padri di famiglia
disposti a vendergli l’anima in cambio d’un tozzo di pane per i figli. La
disperazione induce a peccare di sfiducia nei confronti della Provvidenza. E la
sfiducia in Dio è l’anticamera del diavolo: “’na vorda la fame era tanta”
ed alla fame s’accompagnava la disperazione. I racconti narrati attorno al
fuoco mettevano in guardia figli e nipoti contro il peccato della disperazione
e ricordavano tragedie di poveri affamati vendutisi al diavolo rammentando, con
commozione, quelli fra loro che furono liberati dall’insonne misericordia di
Dio e dall’amore dei santi. Qualcuno, nel circolo della famiglia attenta
all’ascolto, cercava di attribuire verità storica al mito, di identificare i
protagonisti di quei miti in persone esistenti o esistite: “Te llu recordi? Era lu fiju de..., lu maritu de..., lì de
Ca’ Pucinu...”
Il diavolo si mesceva continuamente alle umane faccende per tentare, ispirare odio e calunnie, contagiare il villaggio col frutto velenoso dell’invidia, spargere malattie e disgrazie. Ma il ruolo del diavolo, suo malgrado, era anche quello di divenir strumento per punire chi si allontanava dalle leggi di Dio e della tradizione, o per ammonire dal pulpito o con le parole degli anziani mediante lo spettro fiammeggiante della pena eterna.
Oggi il ruolo dell’antagonista di Dio nella coscienza popolare si è ridotto, in genere, a una presenza quasi insignificante che non incute più terrore. Quando nelle interviste si tocca il tema, ci si sente in genere rispondere con una formale dichiarazione di estraneità preceduta da un sorriso, o da un’alzata di spalle: “li vecchi dicïanu”, “quiji de prima credïanu”. Si sarebbe tentati di dire che, a causa della dinamica culturale e del corso della storia, il diavolo è stato relegato nel folklore dallo stesso popolo col quale aveva convissuto e dal quale era stato temuto e odiato per quasi due millenni.
Si noti come, in questo saggio, tutte le leggende in cui compare il diavolo riportino a tempi affatto lontani eppure completamente diversi dall’epoca attuale: epoche di miseria, precarietà, oppressione delle plebi rurali. Epoche appartenenti a uno “ieri” appena dietro la porta che parla ancora per bocca dei sopravvissuti. Uno ieri vivo nel ricordo, così diverso dall’oggi che la sua diversità non è fatta derivare dalle mutate condizioni economiche della classe rurale, ma è intesa piuttosto, dagli ultimi epigoni di quella cultura, come diversità di natura e di anima: un’alterità ontologica. Epoche dure, talvolta tragiche quelle di un tempo, eppure non esorcizzate od odiate ma -fatto molto significativo per la conoscenza della cultura popolare- accarezzate nella memoria da molti fra i protagonisti delle nostre interviste con caldo rimpianto. Con la nostalgia di un bene perduto. Quelli, infatti, oltre ad essere tempi di fame, erano anche tempi di fede, solidarietà e collaborazione contro la comune precarietà, contro la sofferenza che tutti affratellava e rendeva vicini e partecipi alle comuni disgrazie. Tempi in cui si lavorava duro, a mano o con le “bbestie”, ma in cui c’era anche spazio per corteggiare le ragazze con le serenate, per gli stornelli, i canti spensierati e la festa della mietitura, per la poesia a braccio, per celebrare la festa del borgo in chiesa, per le strade e in osteria. E il canto, a soggetto sacro o profano, accompagnava lo svolgimento delle quotidiane fatiche: “Se cantava, da tutte le parti, se cantava. Noi se cantava sempre, al mulino, quando se mieteva il grano, eravamo molto allegri ‘na volta. Mo, adesso, vedo ‘sti ragazzi... ma ‘na volta se cantava. Era ‘n altra vita. C’era la miseria, però se stava molto mejo d’adesso, molto (...) S’arrivava a casa: «È pronto da mangiare?» e a mangiare contenti. Facevamo ‘na pila grande de minestra perché erano tanti...”. (V. Gizzi: inf. 35)
E c’era anche tempo per leggere Dante ed Ariosto, o per ascoltarne i versi da chi l’aveva letti mentre le pecore brucavano e perfino per mandare diligentemente a memoria terzine ed ottave.
Ma, soprattutto, c’era sempre il tempo per pregare.
La ristrutturazione del pensiero teologico che portò ad una trasformazione del contenuto e del metodo della catechesi; il confronto quotidiano della fede popolare e delle sue verità fino ad allora indiscusse con le verità del piccolo schermo e i differenti contenuti etici ivi proposti; il confronto coi dubbi e le certezze importate da figli e nipoti che avevano studiato in città; il crescente benessere che gradatamente raggiungeva anche le famiglie più povere poco a poco cooperarono, in una sorta di sinergia culturale, per togliere a Dio il suo ruolo di giudice supremo, al diavolo il suo antico prestigio, al vivere e al morire il loro significato, alla notte l’inquetante fascino del suo atavico mistero, alla tradizione dei padri il suo ruolo fondante, al contadino ed al pastore le sue antiche certezze. In questo modo la vitale relazione dei figli col mondo dei padri si incrinò e quindi si spezzò. La tradizione s’interruppe. Un’epoca si chiuse.
Per questo occorre innanzitutto chiedersi: quanto resta, oggi, del patrimonio tradizionale della nostra società rurale? E ciò che resta come viene inteso, giudicato e vissuto dalle genti dell’altopiano?
Questo saggio intende rispondere soprattutto a queste due domande mediante un’indagine sistematica condotta sul territorio.
Se a qualcosa può servire l’impressione diretta di un antropologo culturale al lavoro sul campo, in contatto diretto col popolo, l’espressione meravigliata còlta sul viso di molti dei nostri interlocutori quando rivolgevamo loro le prime domande, il loro velato o dichiarato timore d’esser confusi coi “vecchi” -padri e nonni che credevano nelle streghe, nei mannari, nel diavolo, nelle storie dei santi e nelle benedizioni dei preti- fa intendere chiaramente come, nella loro coscienza, le cose su cui le nostre giudiziose inchieste li intrattenevano erano giudicate appartenenti al passato. Un passato recente, certo, ma comunque passato. Non solo, da alcuni bollato come “altro”, come un residuo di epoche buie, anacronistico in tempi in cui chimici, veterinari e zootecnici risolvono problemi che, un tempo, si tentava di affrontare mediante il ricorso alla preghiera, alle formule liturgiche, o agli incantamenti.
In altri interlocutori, invece, trascorso un tempo iniziale di frequentazione e di mutuo intendimento necessari ad istaurare un clima di fiducia, allo stupore ed alla ritrosia iniziale subentrò l’èmpito del ricordo. Poco a poco, andò affiorando un cosciente orgoglio: l’orgoglio di dichiarare la propria fede in una tradizione creduta valida. L’orgoglio della propria identità di contadino-pastore figlio di quella tradizione che era la stessa dei padri contadini e pastori, la stessa in cui operò il Cappuccino Giuseppe che, fedele alla promessa fatta alla vigilia della sua morte, insonne veglia per sempre sulla sua Leonessa e sulle sue terre, figli e bestiame. E successe così che questi nostri anziani “informatori”, autentici testimoni, spontaneamente iniziarono a cercarci per confidarci segreti e ricordi d’un tempo. Iniziarono a scrivere con grafia stentata e angolosa vecchi stornelli, antiche formule di preghiera, poesie recitate dai loro padri, o riesumavano testi scritti da essi o dai loro avi. Quando ci affidavano questi scritti ci pregavano di non perderli, di studiarli e consegnarli alla stampa. E ci guardavano negli occhi come per suggellare un patto d’onore fra uomini. Un patto reso urgente dall’approssimarsi della morte e dal sopraggiungere del silenzio e dell’oblio che ammutolisce la voce dei padri.
Molti ci tenevano a precisare: “Quiju che mi’ padre
m’ha dittu io te llu redicu”, parole che hanno suggerito il titolo di
questo saggio. Oppure: “Li vecchi lo
raccontavano a papà mio, papà mio me l’ha raccontato a me, mo io te lo racconto
a te” (V. Massi, inf. 29). “Tradizione” come “tramandamento”,
dunque. Tradizione come consegna di valori atemporali. Consegna che valica le
barriere del tempo. E noi abbiamo
fedelmente trascritto, se non tutto, certo la maggior parte di quegli scritti e
di quelle parole.
Oggi si chiude un’epoca: la componente razionalistica, laica e progressista della “cultura egemone” di gramsciana memoria ha preso finalmente il sopravvento su quella che ai tempi di De Martino poteva ancora chiamarsi “cultura subalterna”, o cultura popolare: una cultura che, dalla prospettiva laica, era giudicata infarcita di oscurantismo, ignoranza, supina acquiescenza alle norme inculcate dalla allora cultura egemone. In quest’ultima, tuttavia, realtà come la religione, la tradizione e le norme etiche -seppur ridotte spesso a formule esteriori di etichetta borghese- avevano ancora il loro peso e svolgevano ancora la loro funzione. Quanto rimane della cultura popolare di un tempo, fondamentalmente religiosa, oggi come allora resta limitato all’ambito della “cultura subalterna” perché ha conservato la propria subalternità nei rispetti della nuova cultura egemone laica e globalizzante. Senonché allora si trattava di cultura popolare vissuta, vigente, operante, la stessa che oggi è ridotta a poco più d’uno sbiadito residuo, o un imperfetto ricordo: una sorta di decolor aetas di virgiliana memoria.
Ecco dunque la differenza. Ed ecco il senso di queste estreme testimonianze raccolte oggi, mentre una monocultura trionfante si appresta a dettare le norme del nuovo assetto planetario e del nuovo ordine etico nel segno d’un globalismo che, per affermarsi, ha adottato il criterio dell’imposizione d’una monocultura e l’ideologia dell’etnocentrismo eretta a criterio di verità. Un globalismo che applica il metodo dell’omologazione ottenuta mediante lo sradicamento e il soffocamento sistematico delle alterità culturali. Una monocoltura aggressiva che, in nome del progresso, ove non reputi opportuno distruggere direttamente le tradizioni, le ingloba, reinterpreta, digerisce e riduce a mode culturali, a residui dati in pasto ai mass media ed alle sette neospiritualiste, le svilisce a “folklore borghese consumista”. Una mococultura che falsa e denatura volutamente i valori della cultura preborghese mediante il recupero a scopo lucrativo delle festività popolari, del patrimonio favolistico, della gastronomia, dell’arte rustica, dei canti popolari, ecc. (Cfr. Lanternari 1977: 97-108)
L’analisi del materiale che ci è stato possibile documentare, dal canto suo, rivela come il “materiale etnologico nazionale”, almeno per quanto riguarda l’area oggetto dei nostri studi, sia oggi ridotto a sparse vestigia di un vasto naufragio; frammenti di un sistema disintegrato; elementi già appartenenti a quel complesso organico e funzionale che un tempo potè ancora chiamarsi “cultura popolare” ed oggi è ridotto a folklore sempre più marginale ed emarginato. Da parte nostra, in quest’opera abbiamo tentato di raccogliere, ordinare e ricomporre sistematicamente quegli sparsi frammenti.
Rispondendo alla domanda iniziale. Dunque: “Perché, oggi, dobbiamo raccogliere il nostro «folklore»?” Perché il patrimonio culturale della società rurale agricola e contadina, con la scomparsa degli ultimi depositari di quanto resta del suo patrimonio originario, non sparisca nel nulla. Dobbiamo raccogliere quel patrimonio perché possa essere consegnato alla storia dell’uomo. Sta di fatto che i più giovani fra i nostri informatori hanno ormai calcato la soglia dei sessant’anni. La nostra indagine, qui fra le genti dell’altopiano leonessano come fra quelle delle ultime società rurali andine, ha lo scopo primario di sottrarre all’oblio un aspetto della cultura dell’uomo le cui radici affondano in insondabili profondità, in un humus che appartiene per sua natura alla visione dell’homo religiosus.
Perché dobbiamo studiare il patrimonio della cultura popolare? Perché è l’unico modo per penetrarlo e intenderlo ed è l’unico modo corretto d’approccio per chi, sebbene antropologo ed etnografo di professione, non proviene per nascita dalla cultura rurale, ma soprattutto non l’ha vissuta dal di dentro quand’essa era ancora pienamente vigente. È il caso dello studioso, tenuto a stabilire comparazioni con altre culture, ritrovare affinità, accertare derivazioni e imprestiti, individuare reinterpretazioni locali. È il nostro caso. A questo proposito occorre ricordare, per quanto riguarda Leonessa, il suo ruolo di crocevia geografico e culturale che la pone in una dimensione autenticamente europea dovuta alla sovrapposizione di culture avvicendatesi nei millenni sull’altopiano: Sabini, Romano-Sabini, Longobardi, Carolingi, Svevi, Angioini e Spagnoli. Ma dobbiamo studiare questo patrimonio anche e soprattutto perché il tema della nostra ricerca è degno d’interesse scientifico e rispetto: interesse dovuto dallo studioso nei confronti di ogni manifestazione della cultura dell’uomo, rispetto dovuto al patrimonio plurimillenario di un popolo. Ci piace citare a questo riguardo le parole di Giuseppe Pitrè, pur sempre attuali: “Le tradizioni ci vennero fedelmente lasciate dai padri nostri, e com’essi a noi, così noi dovremmo tramandarle ai figli nostri. Chi si pensa che le si debbano sbandire perché perpetuatrici di pregiudizî, non si appone al vero. Errore, disse Seneca, è il creder tutto, errore egualmente il non creder nulla. Questi che comunemente si dicono pregiudizî, rappresentano (...) resti di storia sformata e intieri miti e parti di miti dalla immaginazione dei volghi alterati; e il pregiudizio, l’errore del popolo, quando esiste, è anch’esso documento per lo storico...” (Citato in Zanazzo 1907: 10-11)
Rimane da rispondere all’ultima questione posta da De Martino: come evitare un romanticismo fuori stagione? Tenendo innanzitutto presente che per un antropologo culturale nell’esercizio delle sue funzioni non esistono e non possono esistere culture “migliori” o “più vere” di altre. Per lo studioso la “verità” di una cultura -fuori dagli schemi dei teologi e dei politici, i quali spesso si somigliano- si misura non dal contenuto metafisico o ideale, o non solo da questo, ma dalla funzionalità della cultura stessa, dal modo con cui essa contribuisce a spiegare a coloro che ne fanno parte i grandi enigmi del nascere, dell’esistere, del soffrire e del morire.
Si misura dal modo in cui una cultura permette l’ordinato svolgimento della vita sociale fondato sull’osservanza di precisi valori etici e religiosi più che sul terrore del castigo.
Si misura dal modo con cui la cultura affronta e interpreta i simboli che circondano l’uomo, alimenta ed orienta il sapere, spiega l’esistere, dà senso all’agire. Nulla atterrisce maggiormente l’appartenente a una cultura tradizionale quanto smarrire il significato delle cose e del vivere; perdere di vista i punti di riferimento che danno senso alla vita; soffrire lo svuotamento prodotto dall’eclissi dei miti che fondavano non solo il mondo ma ogni umana attività su modelli archetipici rimasti validi nel corso di immemorabili generazioni. In breve: la “verità” d’una cultura si misura dalla sua efficacia nell’ambito della società che ad essa fa riferimento.
Da questa prospettiva, la nostra ricerca vuol rispondere al quesito di come la cultura di una civiltà rurale come quella dell’altopiano leonessano ha organizzato i suoi tempi e i gli spazi. Una cultura che, valida e funzionale per secoli e millenni, oggi è stata quasi del tutto soppiantata da un’altra cultura. Quasi, non ancora del tutto perché la nuova cultura diverrà pienamente funzionale solo quando avrà tacitato la voce della precedente: una sintesi è infatti possibile solo fra pensieri religiosi, anche se diversi e perfino opposti, ma non è possibile fra un sistema religioso ed uno a-religioso, laico, quando non dichiaratamente antireligioso come quello che oggi si sta imponendo con tutti i mezzi.
In quasi tutti i casi è stato fondamentale stabilire
previamente un distinguo fra gli argomenti da trattare e ciò che riguardo ad
essi pensavano i nostri informatori e ciò si è reso possibile porgendo in modo
indiretto la domanda: “Cosa pensavano un tempo i vostri padri, o i nonni?”
Ottenuta l’informazione richiesta, quand’era il caso, si è poi proceduto a
porgere la seconda parte della domanda “E voi, cosa pensate in proposito?”.
Dato il carattere specifico del
nostro lavoro, dedicato alla cultura non-materiale della classe rurale, le
domande su vita quotidiana, lavoro, organizzazione famigliare, ecc. sono state
ridotte all’essenziale per permetterci di situare i dati etnografici nel loro
contesto specifico e per poterli intendere da quella che consideriamo essere
l’unica prospettiva corretta in un lavoro sul campo: quella del vissuto
quotidiano.
Per accertarci della genuinità della
risposta fornitaci, inoltre, si è provveduto volta per volta ad effettuare un
controllo diacronico ponendo di nuovo, dopo un ragionevole periodo di tempo, al
medesimo informatore le medesime domande in modo differente e comparando quindi
le risposte ricevute.
Per quanto riguarda la selezione
degli informatori, si è tenuto conto dell’età, del sesso, della provenienza e
della cultura di ognuno di essi. La loro età è di norma elevata o molto
elevata, in quanto la nostra indagine è stata dedicata alle strutture culturali
del mondo rurale, strutture pienamente vigenti fino all’immediato dopoguerra.
Il criterio di selezione basato sul sesso ha tenuto conto degli argomenti da
affrontare ed anche della diversità di vedute che caratterizza il modo di
affrontare il medesimo argomento da parte
di un uomo e di una donna appartenenti ad una cultura che tendeva a
evidenziare fortemente le differenze e a distinguere nettamente i ruoli dei due
sessi.
Per quanto riguarda la provenienza del materiale
etnografico, nella nostra indagine abbiamo attuato una selezione che
permettesse l’acquisizione di dati dal maggior numero possibile delle diverse
frazioni sparse sull’altopiano leonessano in vista della documentazione sia dei
caratteri comuni della cultura rurale che di possibili peculiarità
territoriali. L’indagine ha rivelato, pur nella fondamentale omogeneità di una
comune tradizione, variazioni significative fra la porzione dell’altopiano che
guarda verso l’Umbria e quella geograficamente più prossima all’Abruzzo e
quindi più esposta agli influssi culturali provenienti da quella regione.
Per quanto riguarda i criteri di trascrizione dei
documenti orali, registrati su nastro magnetofonico, li abbiamo resi nella loro
integrità eliminando solo le inevitabili ripetizioni, esitazioni, errori da
parte dei nostri informatori. I tagli da noi apportati sono stati indicati in
questo modo: (...). Non si è provveduto alla traduzione dal dialetto locale dei
documenti citati poiché riteniamo che la forma dialettale è di per sé un dato
etnografico di primaria importanza; abbiamo però tradotto in nota i termini più
difficili indicandone, ove possibile, la derivazione. Per quanto riguarda,
invece, gli scritti inediti qui pubblicati, si è adottato il criterio
paleografico conservando integra la forma degli originali con la loro
punteggiatura, sgrammaticature ed errori ortografici. Concordiamo con quanto
espresso da altri demologi circa la necessità di documenti dialettali: “Il
diniego consapevole o incosciente del dialetto e il ricorso a forme di
traduzione che travisano totalmente il piano dialettologico nel tentativo di
sollevarlo a una pretesa dignità stilistica corrispondono a un diniego del dato
culturale e a una mistificazione più o meno intenzionale di esso.” (Bellotta
1985: 26)
Nota sulla restituzione del dialetto. Nella restituzione delle forme dialettali
abbiamo seguito il seguente criterio: nelle varie sfumature del dialetto
parlato sull’altopiano leonessano il suono della vocale o spesso è
chiuso per cui, quando questo occorre, è stato reso come ó (bónu,
cósa, ecc.). La o finale spesso è oscurata in u ma, nel
dialetto parlato, le due terminazioni tendono ad alternarsi sicché noi abbiamo
reso fedelmente questa alternanza così come è usata dai nostri informatori. Il
dialetto leonessano tende, nei verbi, a troncare la desinenza -re degli
infiniti verbali sicché abbiamo preferito rendere con un apostrofo tale
troncatura invece che con l’accento, come usato da altri autori: es. lavora’,
fa’, di’, ecc. Con lo stesso criterio abbiamo proceduto in ogni
altro caso di troncatura finale: es. po’ (= poco), co’ (=con),
padro’, i’ (=io) ecc. L’apostrofo è stato usato anche per
rendere l’elisione iniziale di sillabe o vocali, frequente nel dialetto locale:
‘mpara’, ‘n (=non), ‘nvece. Quando è stato usato
dai nostri informatori, abbiamo provveduto a rendere il raddoppiamento iniziale
delle consonanti, anch’esso frequente nel dialetto parlato: es. cce, sse,
bbónu, bbinidittu, ecc. Abbiamo preferito rendere con j il
suono reso da altri autori con gl perché a tutti gli effetti è più
simile a quello usato nel dialetto locale: je (=glie, it. gli /
le), quiju (it. quello), móje, còje, ecc. Il dialetto
leonessano, come il gruppo dei dialetti sabini in genere, tende a trasformate
la dentale sonora d in dentale sorda t, trasformazione
specialmente evidente, oltre che nel linguaggio parlato, nei testi scritti che
qui abbiamo pubblicato: es. guita per guida, distente per distende,
Matonna, ecc. Così pure, in alcuni casi, la gutturale g è
trasformata in palatale c: es. incinocchione (=in ginocchioni),
ecc. e la labiale sonora b è trasformata in sorda p. Queste
tendenze generali del dialetto, oltre che nelle interviste, sono specialmente
evidenti nei cartacei autografi da noi raccolti. Per quanto riguarda l’uso del dialetto
da parte dei nostri informatori, si noterà come essi alternino forme lessicali
e frasi nettamente dialettali a forme e frasi in un dialetto semiculto che
nelle loro intenzioni vuole assomigliare all’italiano ma in cui ricompare
spesso l’uso della troncatura della sillaba finale, modismi e costruzioni
sintattiche dialettali, ecc. Dal canto nostro, abbiamo reso fedelmente anche
questa tendenza.
Circa il materiale da noi raccolto,
considerato dal punto di vista linguistico, valgono le osservazioni di Ireneo
Bellotta a proposito del dialetto abruzzese: “... nel periodo in cui i demologi
(...) raccolsero i testi, lo iato fra livello linguistico nazionale e unitario
e il livello dialettofono era ampio e insanabile: e, del resto, tuttora questo
iato praticamente sussiste, anche se si va formando, in conseguenza della
scolarizzazione e dei modelli linguistici dei mass-media, una nuova lingua
mista e sincretistica nella quale coesistono semantemi e fonemi culti o
pan-italiani accanto a espressioni, modi di dire, costruzioni sintattiche e
paratattiche propri dei dialetti...” (Bellotta 1985: 24)
Ruit hora: il demologo e il flusso della storia. Per concludere queste note
introduttive e per dovere di lealtà, dobbiamo esprimere un rammarico: queste
osservazioni sul campo andavano compiute almeno mezzo secolo prima. I dati
raccolti sarebbero stati ben più copiosi e più esatti; le strutture del
pensiero integre e maggiormente riconoscibili; la memoria più vivida e
circostanziata; il deposito tradizionale più vasto; la tradizione popolare
sarebbe stata còlta in azione e non solo nel ricordo. Purtroppo non è stato
così: nel leonessano, quando la tradizione era viva, è mancato un demologo
dello stampo di Gennaro Finamore per l’Abruzzo, di Giggi Zanazzo per il Lazio
romano, o di Giuseppe Pitrè per la Sicilia, attivi tra la fine dell’ottocento e gli inizi del
novecento. Fanno eccezione i documenti sulle tradizioni popolari sabine
pubblicati con rigore scientifico da E. Cirese negli anni ’40 e ’50 del
novecento dei quali, però, solo pochissimi riguardano Leonessa. Il materiale
riguardante le tradizioni popolari leonessane è stato raccolto da
non-specialisti -in genere scrittori locali, curiosi, nostalgici dei bei tempi
andati- senza un piano preordinato di studi e senza la necessaria metodologia
scientifica. Sebbene diversi documenti, pubblicati soprattutto dalla locale
rivista “Leonessa e il suo Santo” siano in dialetto, la maggior parte di essi è
stata rielaborata liberamente dagli scriventi, senza menzionare le fonti né rispettare
filologicamente i documenti orali originali. Una tesi di laurea della metà
degli anni cinquanta (Ranalli 1956), meritevole di attenzione, offre molte
notizie utili per le quali, però, valgono in parte le osservazioni di cui sopra
trattandosi dell’opera d’un letterato e non d’uno specialista demologo, od
etnografo. Una menzione a parte, per il criterio d’impostazione, meritano
alcuni articoli di Mons. Giuseppe Chiaretti e due recenti volumi dedicati alla
cultura e ai mestieri del leonessano. (Nicoli 1999; 2001)
CAPITOLO I. Calendario agricolo e pastorale dell'altopiano: un profilo
informativo
Prima di accingerci a quanto ci siamo proposti, tracciare un profilo della cultura delle classi rurali dell'altopiano leonessano, dobbiamo fornire al lettore lo schema sommario di un calendario dei principali cicli e delle attività agricole e pastorali che si avvicendano nell'ambiente naturale in cui questa cultura si è sviluppata. Questo calendario terrà in conto le principali opere che i pastori ed agricoltori locali dovevano svolgere, per assicurare la sopravvivenza, in conformità coi cicli stagionali.
Foto n. 1
1.
Le stagioni
Per quanto riguarda il clima, vi è innanzitutto da dire che la stagione "invernale" sull'altopiano dura più a lungo dei quattro mesi ufficialmente concessi all'inverno dal calendario. I primi freddi arrivano verso la metà di ottobre, le prime nevi verso la metà di novembre. La stagione fredda si estende fino al mese di aprile con nevicate e freddo assai intensi nei mesi fra dicembre e marzo. Nel periodo più freddo dell'anno (gennaio-febbraio) non sono infrequenti temperature minime che s’avvicinano ai -20°C ed eccezionalmente li oltrepassano. Non mancano nevicate sporadiche anche nei mesi di aprile e, talvolta, di maggio dette “la neve de lu cuccule”. Un clima pienamente "primaverile" si ha nel periodo che va dalla metà di maggio alla fine di giugno. La breve estate leonessana, in genere, termina dopo ferragosto, con le prime piogge e l'istaurarsi di un clima autunnale che va facendosi via via più rigido dalla metà di ottobre. Un vecchio proverbio locale dice: "Leonessa: undici mesi de friddu e unu de friscu". Il calendario delle attività agricole e pastorali, ovviamente, si adatta a questa caratteristica climatica armonizzando le esigenze dell'uomo coi cicli della natura. Questo calendario, da parte sua, non considera l’inizio “ufficiale” delle stagioni ma il periodo corrispondente alla realtà climatica dell’altopiano ed alle attività eseguite in quel periodo dalle sue genti. Per la sua stesura ci sono state preziose le informazioni e la lunghissima esperienza di Domenico Felici (83 anni), agricoltore di Leonessa.
L’autunno
Ottobre: in ottobre, dopo il raccolto delle patate, s’inizia la preparazione del terreno per la semina del grano. Nei terreni ubicati a ridosso della montagna la semina avviene in due tempi: in un primo tempo si semina il terreno posto a occidente (a pacino) in modo che, data la relativa clemenza del clima ottobrino, la minore esposizione al sole non compromettesse la germinazione del seme; in un secondo tempo, quando il clima s’era fatto un po' più rigido, si seminava la parte del campo esposta maggiormente al sole. Per arare si usava il vecchio aratro di legno (pertecara) con l'erpice di ferro, trainato da una pariglia di buoi, o da vacche; vi erano anche aratri di ferro e, verso gli anni venti, iniziarono ad usarsi aratri muniti di ruote. Naturalmente, il tipo di aratro dipendeva dalle possibilità economiche della famiglia per cui, data la generale povertà, l'uso della tradizionale “pertecara” rimase a lungo in auge. Gli aratri di ferro, più pesanti, sempre a trazione animale, aravano più a fondo ma la profondità del solco non superava in ogni caso i trenta centimetri. Nel periodo della semina, conosciuto dialettalmente come “li somenti”, il contadino iniziava la sua giornata verso le quattro del mattino foraggiando ed abbeverando le vacche, o i buoi destinati all'aratura. Questa iniziava verso le sei del mattino e terminava verso le cinque del pomeriggio, quando il sole stava per tramontare. Il lavoro era interrotto a mezzogiorno, per circa un'ora, in modo da permettere a bestie e ad uomini di mangiare e riposare. La quantità di terreno arata giornalmente con l'aratro tradizionale, se il terreno non presentava difficoltà, equivaleva a due "coppe", ossia a 2.000 mq. Una “coppa” di terreno equivaleva a 1.000 are. Terminata l'aratura si provvedeva alla semina: la quantità di seme per una "coppa" era di 23 - 25 kg. Il recipiente che conteneva la quantità di seme da spargere su questa unità di superficie era anch’esso detto “coppa”, serviva anche da misura per i cereali equivalente a 25 kg. ed aveva la forma di un mastello a pianta ovoidale, costruito con stecche di faggio o castagno tenute assieme da strisce di legno (pecagne) tagliate da un “cerro” giovane 1). Data la ridotta capacità produttiva del terreno in zona di montagna, una quantità superiore di seme sarebbe risultata inutile. Seguiva il seminatore una o più persone (partecipavano a questo lavoro anche le donne della famiglia) il cui compito era ricoprire il seme con lo "zappone" in modo che gli uccelli non se ne cibassero. L'epoca della semina iniziava, tradizionalmente, verso il dieci di ottobre e si protraeva per circa un mese, ma trascorsa la festa dei morti occorreva una maggior quantità di seme perché, secondo la tradizione basata sulla pratica, quello seminato in tarda stagione "non nasceva tutto". Prima della guerra e fino agli inizi degli anni cinquanta, a Leonessa erano impiegate per la semina tre qualità di grano: la "famija undici"; lo "zuccu", che aveva la spiga rossastra e senza reste (arzigli); la "biancola". Le tre qualità erano usate per l'alimentazione umana. La resa del grano era, normalmente, di quattro a uno (quattro quintali di prodotto per un quintale di seme), ma poteva giungere al rapporto di cinque a uno e, a volte, di sei a uno. Più tardi, fu importato dalla Sardegna un tipo di grano chiamato "saragòla", a spiga lunga, con un maggior rendimento calcolato attorno a otto parti di prodotto per una di seme. Questo tipo di grano fu adottato rapidamente da tutti gli agricoltori dell'altopiano.
Per quanto riguarda l'orzo, erano seminate due qualità principali: l'"orzone" e l'"orzetta": il primo ha la spiga più lunga dell'altro e viene seminato in autunno, è ritenuto "maschio" perché ha le reste lunghe; l'"orzetta", invece, dalla spiga più piccola e reste corte, era seminata a primavera, nel mese di marzo. L'"orzone" veniva seminato allo stesso tempo del grano. A ottobre si seminava anche la segale (ségola) usata principalmente per l'alimentazione dei maiali.
Durante l'autunno si procedeva alla letamazione dei campi mediante concime vaccino (stabbio) accumulato durante l'anno in grandi mucchi perché maturasse.
Il 25 ottobre cadeva la festa dei santi Crispino e Crispiniano, protettori dei calzolai (scarpari) dell’altopiano. La data coincideva anche col primo deciso irrigidimento del clima e con la caduta delle prime nevi sui monti da cui il detto: “A San Crispinu, la neve sopra lu spinu.”
Per quanto riguarda la pastorizia, finita l'epoca della semina, alcuni contadini emigravano verso la campagna romana, dove la semina era eseguita in dicembre, per prestare opera di braccianti (bufurghi). Quelli che avevano più dimestichezza con la pastorizia e la lavorazione del formaggio, invece, emigravano in Maremma, o in Sardegna. Subito dopo la semina, chi restava, si dedicava al taglio della legna, lasciata essiccare durante l'estate, per affrontare l’inverno con la legnaia ben rifornita.
La transumanza iniziava ai primi di ottobre: i pastori, a piedi o a cavallo, partivano da Leonessa guidando le loro greggi alla volta della campagna romana. Si camminava di notte per lasciar pascolare le pecore durante il giorno. Le tappe giornaliere erano di circa trenta chilometri e in circa sei giorni si raggiungeva la campagna romana. Per ogni gregge vi erano due o tre pastori a cavallo che guidavano le pecore mediante lunghi bastoni. Quando si partiva per la transumanza le pecore erano già gravide perché la stagione di monta cadeva nei mesi di maggio-giugno (il ciclo di gravidanza della pecora è di cinque mesi). Giunti sul luogo prescelto per il pascolo invernale, si costruiva una grande capanna: nei tempi più antichi per la costruzione si utilizzavano giunchi di palude chiamati "scàrsiche" mentre per il tetto erano utilizzati fasci di ginestra (scupìti). Il tetto era sormontato da una croce. La pianta della capanna era tonda od ovale, come le arcaiche capanne laziali. Dentro la capanna erano costruiti i letti per i pastori, generalmente a due piani, detti "rapazzole" formati da una intelaiatura di rami. Su di essi era sistemato uno strato di fascetti di paglia sovrapposti, chiamato "paltriccia" sul quale venivano stese pelli di pecora. I pastori che lavoravano nella campagna romana sotto padrone ricevevano, oltre alla paga, un chilo di pane al giorno, polenta alla mattina, alla sera una minestra di pasta e fagioli. Se la ricotta costava poco sul mercato, il padrone ne forniva al pastore al mattino ed alla sera. Il vino era distribuito a Natale e a Pasqua, nei giorni di festa si cucinava la pastasciutta usando come condimento cacio e un battuto di lardo insaporito, a volte, col concentrato di pomodoro (conserva).
L’inverno
L’inverno leonessano dal punto di vita climatico cominciava ai primi di novembre e terminava ad aprile inoltrato. Questa stagione rappresentava un periodo di relativo riposo in cui, in mancanza di attività all’esterno, la permanenza nel seno della famiglia degli uomini che non svernavano altrove con le greggi era assai più lunga che nelle altre stagioni. La forzata riduzione delle attività lavorative propiziava l’incremento delle attività pertinenti alla cultura non-materiale come la poesia a braccio; la musica; la recitazione di racconti, leggende e poemi e favoriva la socializzazione nell’ambito della famiglia e del vicinato.
Dicembre-gennaio: con la luna calante di questi due mesi si uccideva il maiale e si procedeva, dopo tre o quattro giorni dall'uccisione, alla lavorazione dei salumi ed alla produzione dello strutto e del lardo, ingredienti fondamentali per l'alimentazione rurale perché essi fornivano, quasi esclusivamente, il fabbisogno di proteine nobili. Il maiale era alimentato con tritello di grano, granturco, patate, segale e crusca. Le ghiande erano raccolte nel bosco da donne, bambini e vecchi e se ne dava in abbondanza al maiale perché la ghianda favorisce in special modo la produzione del lardo.
Febbraio: era un mese assai rigido, caratterizzato da temperature estremamente basse per cui si usava dire: “Febbraru, febbrarittu: curtu e mmalidittu”. Il lavoro si limitava, in pratica, ad accudire gli animali stabulati e a poche altre attività eseguite al coperto.
Marzo: se il tempo permetteva, si seminava l'"orzetta" ed anche una qualità speciale di grano detto "grano marzarolo", o "marzolo", dai chicchi piccoli e dallo scarso rendimento, usato per l'alimentazione del pollame. Sempre a marzo, seminata l'"orzetta", si seminava un'altra granaglia chiamata "mogo", una specie di veccia 2) dall'alto potere nutritivo e dal sapore amarognolo, destinata specialmente all'alimentazione dei piccioni, non indicata invece alle vacche, dalle quali era peraltro apprezzata, perché comunicava al latte il suo sapore amaro. Il "mogo" poteva essere seminato anche ad ottobre. Sempre nel mese di marzo veniva seminata la lenticchia.
La
primavera
Aprile: ai primi del mese, o comunque dopo la festa dell'Annunziata (25 marzo), terminata la semina del "mogo" e della lenticchia, si seminava la "cicerchia" 3), un legume destinato all'alimentazione animale ed anche umana; il farro (farre) 4), assai usato nell'alimentazione rurale per prerare minestre o polente, e una speciale qualità di orzo destinato alla tostatura, chiamato "orzo da caffè", poiché il vero caffè era un bene di lusso usato con molta parsimonia. Il "caffè" domestico era preparato facendo bollire nella "cùccuma", contenente circa un litro d'acqua, l'orzo tostato nel "bruschino" e macinato. I più facoltosi usavano aggiungere all'orzo tostato qualche chicco di caffè vero: "cinque o sei vaga là 'n mezzu, proprio come l'acqua santa". Dopo la bollitura, si aggiungeva un po' d'acqua fredda in modo da permettere ai fondi (pósa) di depositarsi sul fondo della caffettiera. La prima colazione del contadino era composta da una mezza tazza di latte di mucca alla quale si aggiungeva caffè d'orzo accompagnando con fette di pane al naturale o abbrustolito al fuoco. Lo zucchero, fino all'immediato dopoguerra, era anch'esso un bene di lusso.
Sempre dopo l'Annunziata venivano seminate anche le patate, entrate nell'uso nel corso del XVIII secolo e divenute rapidamente un ingrediente essenziale nell'alimentazione umana dell'altopiano. Spesso le patate bollite sostituivano il pane, ma erano usate anche per alimentare i maiali. Quelle destinate a semenza erano coltivate in uno speciale appezzamento in cui non era stato seminato nulla per un periodo di sei anni: in questo modo le patate da seme, concimate con letame bovino ma anche col letame di maiali ed asini, acquistavano una maggiore "forza" garantendo un prodotto migliore. Le patate migliori erano e sono ritenute quelle a pasta gialla, qualità chiamata "tónna (tonda) de Berlinu".
Dopo l'Annunziata, verso le tre del pomeriggio, inizia a correre vento fin verso ferragosto. Quando iniziava a soffiare sull'altopiano il vento di fine marzo s’iniziavano le semine primaverili. Nello stesso periodo veniva anche seminata la canapa che forniva una fibra vegetale assai importante nella rigida autarchia famigliare, impiegata principalmente per la tessitura di sacchi, cordami, lenzuola e asciugamani. Sul ciclo della canapa torneremo in dettaglio. Seminata la canapa, si provvedeva a sistemare nei campi gli spaventapasseri.
Durante il mese di marzo, o nei primi giorni d'aprile, si provvedeva anche a vangare l'orto domestico in cui venivano piantate principalmente cipolle, insalata, cavolfiori o verze (camólle), fagioli ed "erbette" (sedano, prezzemolo, basilico). Gli ortaggi erano seminati sempre durante la fase della luna calante. La coltivazione dell'orto era quasi sempre appannaggio dei vecchi e delle donne di casa.
Nello stesso periodo, se il tempo lo permetteva, si lasciava sui pascoli il bestiame che aveva trascorso l'inverno nella stalla o nell'ovile e, mano a mano che la neve si ritirava verso le cime dei monti, il bestiame approfittava dell'erba novella risalendo di quota.
Il 25 aprile, festa di San Marco evangelista, venivano celebrate a Leonessa e nelle varie frazioni le Rogazioni per impetrare la caduta delle piogge primaverili ed alla celebrazione prendeva parte processionalmente tutto il popolo.
Maggio: in concomitanza con la festa del rinvenimento della Croce (3 di maggio) s’usava, secondo la tradizione, seminare il granturco. La qualità di mais seminata un tempo sull'altopiano era chiamata "quarantino": produceva pannocchie dai chicchi piuttosto piccoli e teneri. Oggi il "quarantino" è sparito e si usa seminare una qualità di mais chiamata "dente di cavallo", dai chicchi più grossi e lunghi ma anche più duri. Il "quarantino" produceva una farina di color giallo intenso, di tonalità piuttosto scura, e con essa si faceva una polenta famosa per la sua bontà. Il granturco veniva comunque seminato dopo la patata. La resa del granturco era elevata, si seminavano venticinque chili per "coppa", a file parallele, come le patate. Trascorsa una settimana dalla semina, se il tempo era favorevole, il seme iniziava a germogliare. Il terreno veniva zappato e rincalzato a protezione del germoglio stesso per difenderlo dalle gelate notturne. Assieme al granturco venivano seminati anche i ceci, assai usati nell'alimentazione: per ogni pianta di granturco si seminavano quattro o cinque ceci i quali crescevano attorcigliandosi allo stelo. I ceci erano usati assieme alla cicerchia e alla lenticchia per preparare una nutriente minestra. Mescolata col farro, la lenticchia era usata per preparare zuppe.
Seminato granturco e patate, s’andava nel bosco a tagliare le fascine (zéppe) da usare come combustibile quotidiano in cucina, per alimentare i forni da pane ed anche per preparare il formaggio.
Per quanto riguarda l'allevamento ovino, a maggio venivano tosate (carusate) le pecore e, per questa operazione, venivano fin sull’altopiano specialisti "carusini" da Cantalice e da Poggio Bustone. I "carusini" oltre alla paga, come i mietitori, avevano diritto ai pasti principali. Una delle loro canzoni satiriche diceva:
"Ho
carosatu la pecora e 'l montone
e ancora 'n se vede colazione"
Prima della tosatura si provvedeva a lavare le pecore costringendole a passare attraverso una fossa profonda (bottegone) di un torrente, o una pozza artificiale costruita per l'occasione, per un tratto di 15-20 metri. Una volta tosate, la lana era raccolta in grandi teli di canapa assicurati a un telaio di legno posto su quattro pali. Quando il telo era colmo, lo si slegava dal telaio, si annodavano i lembi e lo si conservava con la lana, di norma venduta grezza ai negozianti, senza lavare. Uno dei punti importanti per la vendita della lana era Norcia. La lana che veniva conservata per uso domestico, veniva lavata accuratamente e poi fatta bollire con la soda in grandi caldai, quindi sparsa al sole e girata frequentemente per farla asciugare.
Giugno: verso i primi del mese si provvedeva al taglio del fieno (fènu) destinato all'alimentazione invernale del bestiame. Il fieno era tagliato col falcetto a mano (serrécchiu) e girato (revordatu) con un forcone di legno. Una volta tagliato, era lasciato seccare sul campo per due o tre giorni: questo periodo era molto critico perché l’eventuale caduta di piogge abbondanti l’avrebbe bagnato rendendolo poco nutriente, o inutilizzabile a causa delle muffe. Prima dell’introduzione della trebbiatura meccanica, il fieno era ammucchiato in covoni.
Per quanto riguarda la pastorizia, nel mese di giugno, quando ormai i pascoli montani erano pingui e rigogliosi, i pastori che in ottobre erano partiti per la transumanza ritornavano con le greggi già tosate e riannodavano i loro legami con la famiglia, o con la fidanzata lasciata nove mesi prima. L'estate, nei villaggi del leonessano, era tempo di matrimoni. Dalla fine del mese di maggio e per tutto giugno durava la stagione di monta del bestiame ovino.
L’estate
Luglio: nel mese di luglio erano giunti a maturazione cereali e legumi piantati a marzo i quali, in questo mese, erano sottoposti alla sgranatura mediante battitura. In concomitanza con la festa di Sant’Anna (26 luglio), se la stagione era stata propizia, si procedeva alla mietitura del grano ormai maturo. Sulla piazza di Leonessa i padroni degli appezzamenti si rifornivano per la mietitura di braccianti che ivi sostavano fin da prima dell'alba muniti dei loro attrezzi di lavoro. Oltre a una paga giornaliera fissa, il bracciante aveva diritto a quattro pasti al giorno: prima colazione, pranzo, merenda, cena oltre a una adeguata quantità di vino. La giornata del mietitore iniziava verso le cinque del mattino; verso le dieci le donne portavano sul campo la colazione; verso mezzoggiorno si pranzava; da mezzogiorno alle due si riposava; dalle due alle sette continuava il lavoro, interrotto alle cinque dalla merenda. In quei giorni tutte le donne di casa erano impiegate a tempo pieno nei lavori di cucina e nel trasporto delle vivande dalla casa al campo. Il grano mietuto era legato in mannelli (grégne / crégne) dodici dei quali, disposti in tre strati di quattro mannelli ognuno, formavano un "cavalletto". Sulla parte superiore del cavalletto si disponeva una gregna isolata orientata in modo che i grani guardassero esattamente in direzione del sorgere del sole. Trascorso del tempo, i mannelli superiori venivano passati in basso e quelli inferiori erano posti in alto in modo da permettere un'essicazione regolare di tutto il grano. Nella parte superiore del cavalletto, comunque, restava sempre una sola gregna rivolta verso il sol levante. Il significato di questa usanza è ormai ignoto ai nostri informatori i quali si limitano a dire che si faceva così "pe' tradizione". Ne tenteremo più avanti un’interpretazione.
Foto n. 2
Il grano raccolto, dopo la trebbiatura, era trasportato al sicuro nella cantina della casa rurale, pronto ad essere utilizzato. A questo scopo, occorre menzionare l'esistenza d’un mobile tradizionale, vera e propria "cassaforte" della famiglia contadina, chiamato "arcone". Il maggiorativo serve a differenziarlo dall'"arca", più piccola, destinata ad impastare il pane e a riporvi la riserva di pane per uso domestico. L'arcone, costruito con tavole di legno di faggio o di pioppo, aveva forma parallelepipeda e poggiava su quattro robuste e corte gambe. La parte superiore, incernierata, era apribile per versarvi dentro il grano. Sulla parte frontale, in basso, l'arcone era munito di due sportellini a saracinesca, che scorrevano dentro guide di legno, i quali servivano a prelevare la quantità desiderata di grano. La capacità dell'arcone variava a secondo delle esigenze e della quantità del raccolto ma era comunque notevole, con una capienza calcolata fra dieci e trenta quintali. Per permettere alle forme di formaggio di conservarsi a lungo senza rinsecchirsi troppo si usava, dopo una prima stagionatura, seppellirle nel grano contenuto nell'arcone. A proposito dell’arca occorre dire che a volte il mobile era munito di chiavi la cui custodia era affidata alla suocera nella famiglia a nucleo esteso e, nella famiglia nucleare, alla madre. Entrambe portavano la chiave del mobile destinato alla custodia del pane appesa al collo, o nella tasca del grembiule affinché donne, vecchi e bambini affamati non intaccassero le razioni di pane destinate agli uomini in età da lavoro.
Quando si sgranava la lenticchia o il farro, dopo la sgranatura, ottenuta facendo calpestare sull'aia i baccelli o le spighe da cavalli o asini, sul prodotto si tracciava con la mano una croce la quale, in certe frazioni, doveva essere diretta in una precisa direzione dello spazio: dal convento di San Giuseppe a Tolentino e da Colleverde a Volciano (Vallunga, inf. 17) perché a Leonessa, dinanzi al convento dei cappuccini, vi era una croce di ferro ed un'altra a Volciano. In altre frazioni si usava dirigere la croce verso la cima del monte sovrastante Leonessa dove, in memoria di una croce portata fin lassù dal santo locale, ne venne eretta una visibile da lontano.
Dopo la mietitura si raccoglieva "la foja" per il bestiame: fronde tenere di pioppo (albucciu) o di querciolo (cerro). Le fronde erano raccolte in fasci e lasciate seccare al sole. Una volta seccate venivano ammucchiate all'esterno della stalla in una sorta di covone chiamato "fronnaru" da dove venivano prelevate d'inverno per l'alimentazione delle vacche e delle pecore.
A luglio si procedeva anche a zappare il terreno attorno alle spighe del granturco.
Agosto: nel mese di agosto, per dare più forza alla pannocchia (tùderu / tùteru) del mais, si recideva l'infiorescenza terminale. Verso la fine di agosto si procedeva alla raccolta della canapa.
Settembre: verso il dieci di settembre, dopo la Natività della Vergine che cadeva il giorno otto, avveniva la raccolta del granturco, eseguita col falcetto (serrecchiu). Trasportato a casa, la pannocchia del granturco veniva liberata dalle brattee lasciando solo tre "foje" che servivano a legare la pannocchia sulla "stangarella": il lungo bastone, appeso al soffitto della cucina, dove il granturco si sarebbe essiccato. Per effettuare questa operazione si riunivano varie famiglie e l'occasione era propizia per racconti, canzoni e per stare in allegria. Il granturco era fatto essiccare nella cucina, o nel magazzino fin verso Natale, epoca in cui le pannocchie venivano poste in sacchi di canapa per la sgranatura mediante battitura con bastone, oppure venivano sgranate a mano mano mano che si aveva bisogno, occasione in cui ancora una volta ci si riuniva tra vicini per collaborare alla bisogna. Il granturco, una volta sgranato, era portato alla mola per la macinatura. Le donne, mediante vagli (corvelli, sedacci) provvedevano quindi a passare la farina per la polenta 5). Le brattee più tenere (gentili) del mais erano usate per riempire i sacconi di canapa che servivano da materassi (pajacci) per il rustico letto.
Verso la fine di settembre, o ai primi d’ottobre, veniva eseguita “la césa” 6), ossia il taglio degli arbusti (in specie di ginestra) nei campi da coltivare. Gli arbusti tagliati, lasciati essiccare al sole, venivano bruciati e le ceneri, al momento dell’aratura, venivano mescolate alla terra fertilizzandola. Si tratta d’una sopravvivenza delle tecniche del “taglia e brucia”, utilizzate nelle fasi aurorali dell’agricoltura, che fornivano al terreno ceneri ricche di sostanze azotate fertilizzanti.
1.1. Rotazione delle coltivazioni ("volture"): dopo il farro il terreno s’impoveriva molto, quindi sullo stesso terreno si seminava solo erba medica per il bestiame; dopo il grano si seminavano le patate, dopo le patate il trifoglio poi il terreno veniva lasciato incolto per la produzione del fieno, quindi il ciclo iniziava di nuovo col grano; dopo il grano, invece delle patate poteva essere seminato, sullo stesso terreno, il granturco. Quando non si disponeva di un'estensione di terreno sufficiente a permettere le rotazioni o una semina che permettesse un raccolto bastevole alle esigenze della famiglia, si poteva ricorrere ai terreni padronali. In questo caso la regola cui ci si atteneva fissava per il mezzadro due parti del raccolto e tre parti per il padrone.
1.2. Il ciclo della canapa: la canapa era seminata a primavera, quando la terra col tepore del sole s'era "scallata", il seme di canapa era detto "cannavicciu". Gli uccelli ne andavano ghiotti, sicché bisognava subito ricoprirlo con la zappa e quindi proteggerlo con gli spaventapasseri. Verso la fine d’agosto si raccoglieva la canapa "femmona", ossia quella di color bianco che maturava per prima, la quale era stesa sulle stoppie dei campi in cui si era mietuto il fieno e lasciata asciugare al sole. Qualche giorno dopo si raccoglieva la canapa "maschiu", di colore un poco più oscuro. La si raccoglieva in mannelli e la si colpiva con un bastoncino sottile (bastunciju) per liberarla dai semi. Una volta liberata dal seme, questa seconda canapa era stesa sulle stoppie come la precedente e lasciata asciugare. L'essiccatura si prolungava fin quando le condizioni atmosferiche lo permettevano. Una volta asciutta, la canapa era legata in mannelli e conservata al coperto. Dopo fatto il pane, nel forno caldo, si procedeva ad un'ulteriore essiccazione della canapa lasciandola per due o tre giorni nel forno, la cui bocca veniva chiusa. Si diceva che nel forno la canapa "se 'ncrocchiava": s'induriva asciugandosi. Riposta al coperto, d'inverno, si puliva la canapa passandola attraverso la "macenuria", la maciulla: un attrezzo formato da due regoli di legno, incernierati ad un'estremità, muniti di scanalature. La "macenuria" era munita di zampe di legno, due più lunghe e due più corte infisse nella parte inferiore, che le permettevano di restare obliqua rispetto al terreno. Le fibre di canapa, strette in questo attrezzo mentre le si tirava per un capo, lasciavano cadere nelle scanalature i "cocci", ossia i tegumenti dei semi rimasti attaccati alla fibra. Dopo essere stata "macenuriata", si "costava" la canapa, ossia si procedeva a pettinarla, mediante una sorta di spatola di legno arcuata impugnata alle due estremità, dopo aver legato i fasci di fibra di canapa alla scala che portava dalla stalla al fienile. Finita la pettinatura, la canapa veniva "arrocciata", legata a crocchie e la si portava a cardare da un cardatore che provvedeva a cardarla mediante due tavole munite di chiodi ricurvi. A questo punto, la canapa era finalmente pronta per essere filata, mancava solo la bollitura con la cenere per renderla perfettamente pulita. Si ottenevano due generi di fili: "lu tomintu" 7), che era un filo più grossolano e "li nócchi" che erano fili più fini. Una volta filata tutta la canapa che occorreva per un determinato lavoro, la si portava a tessere col telaio a mano (da Ocre la si portava a Villa Climinti, l'ultima tessitrice si chiamava Cristina). Col telaio si ottenevano dei rotoli di tessuto di canapa, larghi circa settanta centimetri e lunghi vari metri. Questi rotoli facevano parte integrante della dote della giovane sposa e servivano principalmente per confezionare lenzuola molto resistenti. Le madri dicevano, quando la figlia era pronta per le nozze: "Fìema se pórta tanti róduli", specificando il numero di rotoli di canapa sistemati nella cassapanca nuziale pronta a raggiungere la casa dello sposo. (Ocre, inf. 6)
Foto n. 3
1.3. La lavorazione del formaggio: al mattino presto si scaldava nel caldaio di rame il latte di pecora, o di vacca. Il latte di capra, se c'era, si preferiva usarlo per colazione. Si prelevava un po' di latte caldo, ma non bollente, e lo si versava in una terrina. In questo latte veniva immerso il caglio (quaju) secco sistemato in una pezzuola di tela. Lo si lasciava immerso agitando di tanto in tanto la pezzuola fino a completo scioglimento. Il latte cagliato veniva quindi versato nel caldaio e aggiunto a quello destinato alla preparazione del formaggio girando in continuazione con un lungo bastone di corniolo chiamato "lu mmìsticu". A volte, per accelerare la coagulazione del latte, s’aggiungevano al caglio pezzetti di rami di fico, usanza assai antica: Varrone reatino riporta un metodo simile per ottenere il caglio del latte 8). Una volta mescolato accuratamente tutto il latte in modo che il caglio agisse, lo si lasciava riposare fino a quando sulla superficie si formava la giuncata. Quando s'era formata, su di essa era tracciata col pollice, o con il "mmisticu", una croce che serviva a proteggere dall'invidia e dal malocchio le ulteriori delicate fasi di preparazione del formaggio. Una volta separatosi dal siero e precipitato il formaggio sul fondo del caldaio, lo si tirava fuori e lo si lavorava con le mani (ammalloppava) in modo che perdesse l'eccesso di siero e divenisse compatto. La pasta del formaggio veniva quindi sistemata in una forma speciale priva di fondo. Questa, essendo circolare, era detta "lu cerchiu". La forma era costruita con legno di faggio giovane, o d'ornello, tagliato a striscia e sovrapposto; la striscia era alta "un furgu", ossia la misura calcolata dalla punta del dito indice fino alla base del pollice. Attorno alla forma si legava uno spago che, stretto o allentato, serviva per ottenere il diametro giusto. Una volta scolato completamente, il formaggio nella sua forma di legno veniva salato in superficie e posto in un luogo fresco su di una tavola. Dopo circa tre giorni veniva tolto "lu cerchiu" e il formaggio era lasciato stagionare.
Il siero rimasto nel caldaio, posto di nuovo sul fuoco fin quasi a bollitura, veniva rimestato in continuazione finché si formava la ricotta. Questa, prelevata con un colino, era sistemata in un apposito canestrino di giunco intrecciato detto "fuscella" 9). (Ocre, inf. 10)
2. Calendario agricolo e liturgia
Si noti come le fasi delle principali attività agricole fossero regolate dalle feste del calendario liturgico: l’inizio della semina avveniva subito dopo la festa della Maternità della Beata Vergine Maria (10 ottobre); la semina della cicerchia, del farro e dell’orzo da tostare avveniva dopo la festa dell’Annunciazione (25 marzo); il granturco era seminato in concomitanza con la festa dell’Inventio Crucis, 3 maggio, giorno in cui si sistemavano anche le croci nei campi; la mietitura avveniva in occasione della festa di Sant’Anna (26 luglio); la raccolta del granturco era eseguita dopo la festa della Natività della Vergine (8 settembre). Si noti anche come, a parte la festa del Ritrovamento della Croce (comunque associata strettamente alla figura di Sant’Elena, madre di Costantino), le altre feste che corrispondono alle attività agricole siano dedicate alla Vergine ed a Sant’Anna, ossia alle due figure il cui ruolo di madre rende specialmente disponibili a un collegamento ideale e funzionale con la fertilità della terra e con la produzione delle messi. Figure femminili archetipiche appartenenti al mondo cristiano sostituitesi alle vecchie divinità femminili sabino-romane o addirittura umbro-sabine della vegetazione, del rigoglio primaverile e della produzione del suolo. Fra queste ultime occorre ricordare, per importanza, la dea delle messi Cerere le cui immagini, nel culto rurale, erano coronate con spighe di grano, come canta Tibullo: “Bionda Cerere, per te una corona di spighe dai nostri campi” 10)
Non altrimenti dal leonessano in altre regioni d’Italia, nelle Marche ad esempio: il ciclo del grano e il ciclo festivo del calendario mariano sono strettamente associati e, a Macerata ed altrove, offerte di grano sono presentate alla Vergine nella tradizionale processione delle “canestrelle” e in quella spettacolare del “covo”. “L’intercessione della Vergine, come un tempo, è ancora necessaria soprattutto nella coltivazione dei campi, contro i disastri della pioggia e della grandine, in particolar modo nelle fasi più critiche del ciclo agricolo stagionale: il raccolto e la semina. Quasi tutte le feste mariane, non a caso, vengono celebrate tra l’estate e l’autunno, diffuse un po’ in tutta la regione.” (Gherardi 2001: 49)
3. Due calendari popolari in rima
3.1. Ad Albaneto abbiamo raccolto questo breve calendario popolare a rima in cui sono specificate le risorse alimentari animali disponibili per ogni mese (inf. 38):
“Gennaru
e febbraru
la
gallina non ha paru,
marzo
e aprile
un
bel capretto gentile,
maggio
e giugno
un
bel vitello a grugno,
luglio
e agosto
un
bel galletto arrosto,
settembre
e ottobre
un
bel prisuttu rompere,
novembre
e dicembre
un bel porchetto stendere.”
Così spiega la nostra informatrice: la gallina non ha pari perché a gennaio e febbraio, se il gallinaio è riparato e l’alimentazione è buona, fa tante uova; a marzo e ad aprile ci sono i nuovi capretti e in più è Pasqua; a maggio e giugno partoriscono le vacche perché c’è più erba e i vitelli sono “a grugno”, cioè più grassi per il latte assai ricco di nutrimento; a luglio e agosto possono essere sacrificati i galletti in eccedenza nati a gennaio-febbraio; a settembre e ad ottobre i prosciutti lavorati a dicembre sono già al punto ottimale di maturazione; a dicembre è ormai tempo di uccidere il maiale.
3.2. Sempre da Albaneto proviene questo calendario dei mesi, componimento di origine colta, appreso agli inizi del secolo scorso sui banchi di scuola (inf. 38):
“Gennaio
mette ai monti la parrucca,
febbraio
grandi e piccoli imbacucca,
marzo
libera il sole dalla prigionia,
aprile
di lieti canti orna la via,
maggio
vive tra musiche di uccelli,
giugno
ama i frutti appesi ai ramoscelli,
luglio
falcia le messi al solleone,
agosto
avaro ansando le ripone,
settembre
i dolci grappoli arrubina,
ottobre
di vendemmie empie le tina,
novembre
ammucchia aride foglie in terra,
dicembre ammazza l’anno e lo sotterra.”
4. Stagioni e cultura: il focolare, l’osteria, il fontanile, la stalla, la piazza, il pascolo
Il focolare. Dal calendario delle attività agricole e pastorali che abbiamo brevemente illustrato, risulta che il periodo di relativo riposo per il contadino-pastore dell’altopiano coincideva con i mesi più rigidi del lungo inverno: dai primi di novembre a febbraio e, a volte, fino a marzo inoltrato. In questi mesi la vita si svolgeva specialmente in casa e nella stalla dove ci si recava al mattino presto per foraggiare gli animali, si tornava alla sera per mungere, trasportare il letame nel letamaio, spargere nelle mangiatoie la razione serale di foraggio ed ogni qualvolta gli animali avessero bisogno d’assistenza, come nella delicata fase del parto, o quand’erano ammalati. Durante l’inverno si eseguivano i lavori che potevano essere svolti al coperto come la costruzione o la riparazione degli attrezzi agricoli, dei carri, dei finimenti per gli animali da tiro e da soma, il piccolo artigianato domestico, ecc. Il freddo, le piogge tardo-autunnali e le frequenti nevicate, le ridotte ore di luce costringevano la famiglia a vivere in casa più tempo del solito. L’inverno favoriva, dunque, non solo la socializzazione, ma anche tutte le attività pertinenti alla cultura non-materiale come la recitazione di storie, spesso cantate, poesie, fiabe, racconti e leggende nonchè i quotidiani momenti di preghiera comune.
Il focolare domestico era tenuto sempre acceso durante il giorno fin dalle primissime ore del mattino poiché le donne usavano cucinare sulla fiamma del camino dove, appeso alla catena, vi era sempre “lu callaru” di rame stagnato: il capiente caldaio rifornito continuamente d’acqua, mentre sui tripodi di ferro si poggiavano i tegami per cucinare. Di notte le braci venivano ammucchiate con la paletta di ferro e ricoperte d’una coltre di cenere, azione fatta oggetto, come vedremo, di speciali riti. Semisepolta nella cenere veniva lasciata, durante la notte, la pignatta di terracotta fornita di manico, chiamata “pigna”, in cui si facevano ammollare ceci, o fagioli secchi per la minestra del giorno seguente. Accanto al fuoco, di giorno, sostavano i più vecchi della famiglia occupati in piccole faccende e lavori minuti, oppure nella filatura della lana, o a collaborare nella preparazione dei pasti.
Mentre vi erano, nello spazio comune del vissuto quotidiano, spazi riservati agli uomini ed altri alle donne, il focolare per sua natura favoriva la socializzazione indipendentemente dal sesso e dall’età: questa, dal punto di vista culturale, era la sua più importante funzione. Dopo cena, infatti, il camino acquisiva una diversa dignità: diventava il centro attorno al quale si svolgeva la vita famigliare ed avveniva, in modo speciale, la trasmissione della cultura tradizionale.
Attorno al fuoco si recitava il rosario serale assieme alle preghiere corrispondenti alle feste più sentite e importanti del calendario liturgico e della devozione famigliare.
Attorno al fuoco si discutevano le questioni della famiglia, i problemi riguardanti il lavoro, si prendevano assieme le decisioni più importanti.
Attorno al fuoco gli anziani entravano in contatto coi giovani, un contatto assai più diretto di quello quotidiano che avveniva sul lavoro, o nei brevi momenti dei frugali pasti comunitari. Attraverso la parola degli anziani, il patrimonio tradizionale della cultura rurale veniva riproposto, riaffermato, veicolato ai giovani. In una parola, avveniva quel necessario processo di “tramandamento” che è proprio della tradizione quand’essa è ancora viva e operante.
E la tradizione forgiava nei giovani la coscienza dell’identità culturale assicurando alla comunità rurale la persistenza nel tempo di tale identità, un’identità profondamente religiosa i cui punti di riferimento ideali erano Cristo, la Vergine, i santi, gli eroi della storia patria e quelli delle storie attinte al repertorio della grande poesia di Dante, Ariosto, Tasso che veniva appresa a memoria; i personaggi delle storie composte da anonimi poeti-contadini e narrate fedelmente dai vecchi. Quei personaggi, o molti di essi, assieme ai cavalieri ed alle dame dell’”Orlando Furioso” o della “Gerusalemme Liberata”, pur appartenendo in quanto ad origini al mondo della fantasia cólta, erano profondamente radicati nella realtà culturale della campagna, tanto da rappresentare veri e propri archetipi che influivano in modo significativo sulla sfera del comportamento perché plasmavano, assieme ai valori fondanti della religione, l’etica del popolo.
Sottratti alle rarefatte regioni della grande creazione poetica e al dominio cólto dei letterati, gli antichi cavalieri, pur non avendo perso nulla della loro nobiltà, erano divenuti eroi del popolo ed erano da questo amati, sognati, additati ad esempi di vita. Assieme ad essi erano entrati a far parte della tradizione popolare anche i grandi eroi della storia più antica assieme a personaggi d’una storia molto più recente: i briganti.
Nella persona del brigante-insorgente visto dalla prospettiva popolare confluivano, infatti, potenti valori quali l’ideale dell’onore, del coraggio, dell’amore incondizionato per una libertà affermata a prezzo della propria vita. L’idea di “brigante” evocava la fedeltà ai valori della religione e, nella sua versione poetica e idealizzata, coincideva con quella d’un uomo generoso e forte partorito dal grembo del popolo. Un uomo che aveva in comune col pastore-contadino, oltre ai padri, il monte, il bosco, la durezza della vita ma, a differenza di lui, aveva rinunciato alle poche gioie della famiglia, alla casa ed al villaggio per rompere limiti, per difendere un’idea, o semplicemente per affermare sè stesso. Un uomo che, pur possedendo leggendari tesori nascosti in inaccessibili grotte od occulti nel cavo di alberi secolari, era visto come paladino del popolo, difensore dei deboli, protettore dei poveri: un brigante-cavaliere, insomma. E del cavaliere il brigante delle saghe popolari possedeva alcuni dei pregi ma soprattutto tutti i difetti quali l’eccesso nell’uso della forza, una forza che a volte diventava violenza distruttiva e cieca, si tramutava in oscuro potere di vendetta sordo a ragioni più alte, ed altri difetti da cui nessun uomo è immune. I difetti nel brigante, tuttavia, erano validamente contrappesati da altre virtù quali l’eroismo; l’abnegazione; la capacità di vivere grandemente e intensamente la propria vita nell’amore, nella guerra, nel pericolo, in solitudine, sofferenza e morte. E proprio la morte in battaglia, come già era avvenuto per il cavaliere, dava al brigante il diritto a sfuggire ai limiti angusti segnati all’umana natura perpetuando il ricordo del suo nome e delle sue gesta. Gli concedeva il diritto ad emigrare dalla storia al mito, o dal mito alla storia ché il mito nella coscienza popolare è pur sempre storia sacra, reale, accessibile, riattualizzabile nelle umane vicende di tutti i giorni, cuore e motore della storia.
Le narrazioni iniziavano dopo la recita del rosario, mentre la cucina era immersa nella penombra rischiarata dai bagliori del fuoco. Dopo cena ogni lume era spento per ridurre il consumo d’olio o sego. Spesso si risparmiava anche la legna perché due o più famiglie si riunivano a turno presso uno stesso focolare. Quando ci si recava a casa d’altri per passare la serata accanto al fuoco si usava una perifrasi: “ce jimu a ssede”, “ci andiamo a sedere” e l’incontro si chiamava “la seduta”. A sedere per riposare dalle fatiche del giorno. Per riscaldarsi prima di coricarsi nelle gelide stanze in cui, nelle case più povere, il vento soffiava rèfoli di neve fra gli interstizi delle tegole. A sedere per ascoltare ed imparare. Ai convenuti si usava offrire delle piccole pere selvatiche (pera pazze) conservate in un tino con acqua che, col tempo, diveniva acidula. Oppure s’offrivano loro mele selvatiche (schianchi) lasciate maturare a lungo sotto la paglia. Ma soprattutto si metteva in comune il dono sacro del fuoco, simbolo d’ospitalità, solidarietà e della famiglia.
L’osteria. Durante il lungo inverno, oltre il focolare domestico, anche l’osteria del villaggio assolveva una funzione importante per quanto riguarda la socializzazione e la cultura. Nell’osteria, infatti, il bere non era lo scopo principale: diveniva piuttosto un pretesto per incontrarsi, per giocare a carte, parlare, scambiare consigli e informazioni utili al lavoro, contrattare, stringere amicizie o sfogare risentimenti. Ma l’osteria era anche il luogo dove ci si riuniva per far poesia a braccio, per cantare accompagnandosi con l’”organetto” paesano e passare un’ora in allegria dimenticando l’asprezza della vita. Inoltre, a differenza del focolare domestico, l’accesso al quale era permesso a uomini e donne, l’osteria costituiva un microcosmo esclusivo ai soli uomini, interdetto a donne e bambini. Un luogo dove gli uomini potevano parlare liberamente, senza restrizioni o gelosie da parte delle donne e senza doversi sentire inibiti per la presenza di bambini e non solo per scambiare battute salaci, o per raccontare storie “da maschi”, ma anche per discutere di politica e di vita ed esprimere opinioni, per sfogare tra soli uomini malumori repressi, malcontenti reconditi e crisi coniugali.
Spesso, certo, si finiva per parlar male delle fémmone ma questo era pur sempre un modo, ricalcato su canoni convenzionali, per affermare al negativo l’importanza del ruolo svolto dalla donna nella società rurale non solo come sposa, madre, lavoratrice, compagna d’una vita difficile e precaria ma anche -seppur solo per la breve luminosa stagione della gioventù e dell’innamoramento, come provano i numerosi stornelli qui raccolti- musa fugace ispiratrice di poesia, bellezza, leggiadro sentire. E negli stornelli cantati in osteria celebrazione e denigrazione della figura femminile s’intrecciavano senza apparente contraddizione e, spesso, senza cosciente malizia.
Il fontanile, la piazza, la stalla. Le donne, dal canto loro, avevano a loro disposizione altri spazi, sebbene più ridotti, in cui aveva luogo la socializzazione: il fontanile dove ci recava ogni giorno con le conche di rame, o gli asini ad attingere acqua nelle “cupelle” di legno; il lavatoio pubblico o il torrente dove si lavava il bucato; la cucina deserta di uomini nella bella stagione. Sull’aia e nei vicoli, all’uscita della chiesa, sui pascoli le donne si raccontavano i loro drammi quotidiani. Si confidavano progetti e timori, davano sfogo alle loro ansie ed alle loro pene, si consigliavano, confortavano e, perché no? spettegolavano e sparlavano: “Se sfottevano, cantavano, parlavano, raccontavano (...) più de tuttu se raccontavano le storie co’ li mariti, co’ li fiji (...) ma anche sul modo di curare i famigliari perché li dottori non c’erano: «Guarda, tu che hai fattu quanno quellu stava male?...» E se conzijavano. Anche quando partoriva una, se ‘l parto se metteva male, annavano sempre a chiede a una più esperta de loro (...) Se conzijavano molto l’una e l’altra le donne.” (V. Pulcini, inf. 1)
Durante la bella stagione, la piazza del villaggio era il luogo naturale di ritrovo per grandi e piccini. Ivi, ripetendo moduli comportamentali tradizionali, le donne ritagliavano il loro spazio comune separato da quello degli uomini: “In estate non se usava fare la calza (...) finiti da fa’ li lavori se stava tutti in piazza (...) gli ommini erano raggruppati in un punto de la piazza, discutevano de bbestie, de contratti, de cóse, le donne da ‘n artro angolo, tutte ‘nsiemi, discutevano de cóse de donne e li ragazzi giocavano...” (Idem)
Anche la stalla era un luogo privilegiato dalle donne per le loro riunioni, specie in inverno dopo la mungitura serale, quando il calore degli animali e quello prodotto dalla fermentazione del letame rendevano la stalla un luogo a suo modo confortevole. È quanto esprime una vecchia “sadra”, una canzone satirica diretta contro le donne della frazione di Vallunga (Albaneto, inf. 38):
“Soneremo
la trimba e tromba,
li
costumi de Vallonga
che
la fame ce rimbomba:
vanno
pre (per) acqua a le canale
pe’ i’ ‘nnensù non po’ arpare 11)
eppur
vonno minchionare.
A
fila’ vau pe’ le stalle,
lì
ce vannu fije e mamme:
non
ce vannu pe’ filare
ma ce vau pe’ ciuettare, 12)
lì
discutono e lì’ dicono:
«’St’estate
me maritu,
l’ho
trovatu ‘n bon partitu.»
Vie’
l’estate, poverette,
e la fame le schioppetta 13)
e ‘stu mèle non se lecca.” 14)
Il pascolo. Fra gli spazi e i tempi in cui avveniva la trasmissione di cultura nella società rurale dell’altopiano dobbiamo ricordare le lunghe ore e giornate passate dai pastori sui pascoli montani dalla tarda primavera all’autunno, o dai pastori emigrati sui pascoli delle pianure costiere durante il periodo della transumanza. In quell’occasione, i pochi fra di essi che sapessero leggere, portavano nella bisaccia (catana) assieme al tozzo di pane e cacio consunte edizioni de “La Gerusalemme Liberata”, o dell’“Orlando Furioso”, o di “Guerrino il Meschino” e perfino della “Divina Commedia” di cui apprendevano a memoria interi canti. Questi, in seguito, divenivano oggetto di recitazione in famiglia, oppure nell’osteria, o nelle feste. Ancora oggi non è infrequente incontrare vecchi pastori d’un tempo che ricordano a memoria lunghi brani di Ariosto, Tasso e anche Dante. I molti che allora non sapevano leggere, imparavano a memoria da chi aveva letto e appreso e tramandavano ad altri le creazioni della poesia cólta. Questa diveniva, a sua volta, fonte d’ispirazione per altre creazioni poetiche che ricalcavano la loro struttura metrica sulle ottave ariostesche.
I canti dei pastori “... sognati sotto il solleone o nell’imperversare della bufera o nelle lunghe notti all’addiaccio, si tramandavano di generazione in generazione (...) come motivi di evasione dalla esasperante monotonia dei giorni ritmati implacabilmente dal belato della greggia:erano trepidanti nostalgie della casa, della donna amata, dei figli lontani; pungenti satire di persone, di eventi cronachistici, di costumi; ingenue rievocazioni di mitiche vicende e di leggende agiografiche.” (Chiaretti 1982: IV)
La lontananza dal paese e dai propri cari durante il lungo periodo della transumanza colorava di nostalgia i componimenti poetici dei pastori montanari. Il tema della distanza, del rimpianto struggente, dell’impietoso destino dei poveri ricorre frequentemente in quei canti. Un’anziana di Albaneto ricorda commossa il giorno in cui le donne salutavano i loro uomini che partivano per la transumanza e il luogo dove avveniva l’addio: “lu colle Sparticore”, Spezzacuore. E ricorda ancora le scarne parole di commiato degli uomini dopo l’ultimo abbraccio alle loro donne: “Beh, retornàtevene, va.” (Inf. 38)
Per quanto riguarda la poesia popolare, la terra leonessana ha prodotto vari poeti fra cui il più noto è Angelo Felice Maccheroni, nativo di Piedelpoggio (1801-1882), autore, fra l’altro, della “Pastoral Siringa” e di una “Vita del Cappuccino San Giuseppe di Leonessa”, in versi. Ancora di Piedelpoggio occorre menzionare il meno noto Andrea Pietrolucci, autore di un componimento poetico in cui, fondandosi sull’autorità delle Scritture, confuta la tesi copernicana dell’eliocentrismo (Pietrolucci 1831) e di un cantico pastorale in cui tesse le laudi di Dio (Idem 1850); un tempo erano celebri i bei versi di Sante Nanni da Terzone, soprannominato l’”Abate” perché prima di tornare ad esser pastore fu chierico e si ricordano ancora i nomi di Giuseppe Trancassini e Gregorio Vittucci. (Trinchieri 1953)
Ringraziamenti: il primo, doveroso ringraziamento va all’Assessorato alla Cultura della Regione Lazio, senza il cui contributo questo lavoro non si sarebbe potuto portare a termine. Il secondo ringraziamento va a tutti coloro, uomini e donne dell’altopiano leonessano, che hanno fornito ricordi e dati della loro cultura tradizionale: senza di essi non avremmo potuto compiere in alcun modo la nostra indagine. Il terzo va a tutti coloro che, amando il nostro territorio e le nostre genti e credendo in questo nostro progetto di recupero delle radici tradizionali, ci hanno aiutato a compiere l’impresa: l’Avv. Paolo Trancassini, Sindaco della città di Leonessa che, prima ancora che iniziassimo questo progetto, aveva iniziato attivamente il recupero delle tradizioni locali fondando il Museo Demo-etno-antropologico di Leonessa, ci aveva affidato le prime ricerche sul campo e che, per questo progetto, ha contribuito fornendo l’appoggio di un’auto rendendo possibile accelerare notevolmente il nostro lavoro. Un doveroso e affettuoso ringraziamento va anche al Dott. Mauro Zelli, qualificato specialista di storia locale, autore di numerose monografie, che ci ha aiutato quando abbiamo avuto bisogno dell’opinione dello storico. Desideriamo ringraziare, inoltre, il Geom. Quinto Vannimartini per l’appoggio tecnico offertoci e, soprattutto, per la sua disponibilità ed esperienza che ci hanno permesso di risolvere molti problemi pratici dall’informatica alla cartografia. Un ringraziamento speciale va al P. Anavio Pendenza del Convento dei Frati Minori di Leonessa che ha ritratto con squisita sensibilità il volto del nostro territorio e l’anima delle sue genti: a lui si devono varie delle foto che illustrano questo volume. Ringraziamo l’Assessore alla Cultura del Comune di Ascoli, l’amico Andrea Antonini ed anche la Dott.ssa Emanuela Impiccini, Direttrice della Biblioteca Comunale d’Ascoli Piceno, per la sua collaborazione. Molti altri sono gli amici leonessani da ringraziare, fra essi i nostri collaboratori più stretti: Gina Pulcini, Maddalena Stocchi, Tullio Marchetti, Domenico Cordisco, Domenico Faranfa, Toto De Felice, Rosa Olivieri, Maria Runci, Annunziata Venanzi, Elisabetta Marchetti, Domenico Felici, Franca Gizzi, Anna Climinti, Angelo Vittucci, “nonna Maria” di Leonessa che ha voluto conservare l’anonimato, la famiglia Gizzi (papà Rosato, poeta, e Angelo autista solerte che ha percorso assieme a noi l’altopiano), l’amico Agostino Boccanera, l’amico Ferruccio Armeni. Ringraziamo la Dott.ssa Maria Rosaria Riccardi per il valido aiuto offertoci nel reperimento di alcuni testi citati in bibliografia e l’Architetto Paola Giorgiani per la bibliografia sull’Abruzzo.
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1) Quercus cerris (fam. Fagacee)
2) veccia: pianta erbacea delle Papilionacee (Vicia
sativa) trae il nome dal latino vicia. Caratterizzata dai fiori
rossi e dai semi tondi e scuri, era usata per il foraggio ma, in tempi di
carestia o quando il grano scarseggiava, anche per fare il povero pane di
veccia. Donde il proverbio: “‘N tempu de caristìa, pa’ de veccia”.
3) cicerchia: pianta erbacea delle Papilionacee (Lathyrus sativus). Trae il nome dal latino cicercula (“piccolo cece”). I semi colorati, contenuti in un baccello, contengono un principio tossico per cui occorre dosare la quantità nell’alimentazione del bestiame ed umana.
4) il farro: pianta delle Graminacee (Triticum dicoccum; T. monococcum; T. spelta). Il leonessano “farre” deriva dal latino far - farris
5) "polenta", in dialetto pulenta / pulenda, deriva dal latino pulmentum che significa "pietanza"
6) césa deriva dal latino caesura, “taglio” che, a sua volta, deriva da caedere, “tagliare”
7) tomintu deriva dal latino tomentum: l'imbottitura del cuscino romano consistente in fieno o foglie di canna, mentre per i ricchi l'imbottitura era fatta di lana od anche di piume di cigno (Carcopino 1971: 177-178)
8) Varrone: De Re Rustica 2, 11, 4-5: “Alii pro coagulo addunt de fici ramo lac et acetum...”
9) fuscella deriva dal latino fiscella:
"canestrino di vimini" usato per contenere la frutta o per preparare
il formaggio; fiscella, a sua volta,
è diminutivo di fiscus,
"canestro"
10) Tibullo, Elegie 1, 1, 15: “Flava Ceres tibi sit de nostro rure corona spicea”; Tibullo, Elegie 2, 1, 4: “... spicis tempora cinge”
11) per risalire non ce la fanno ad arrampicarsi: arpare dal lat. arrepere, “inerpicarsi”
12) ciuettare: pettegolare
13) metaforicamente: le uccide
14) “questo miele non si lecca”: i dolci progetti non si realizzano