Il 2017 di leonessa.org ricomincia da qui.

Dall'editoriale di Tommaso Cerno, direttore del settimanale che ci accompagna oramai da più di quarant'anni.

Dalla politica all'economia, il nuovo ci ha traditi. Così l'Italia e il mondo entrano nel 2017 guardando al passato.

 E lo spirito del tempo è fatto di nostalgia, retromarce, restaurazioni.

Comunque la pensiate, Buon Anno di cuore.

G.B.  

Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi? Almanacchi per l’anno nuovo?
Sì signore. Credete che sarà felice quest’anno nuovo?
Oh illustrissimo sì, certo.
Come quest’anno passato? 
Più più assai.
Come quello di là?
Più più, illustrissimo.
Ma come qual altro?
Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
Signor no, non mi piacerebbe.

Il celebre dialogo di Giacomo Leopardi racchiude, profeticamente, la copertina dell’Espresso. Un numero che esce il 31 dicembre e resta in edicola fino al 6 gennaio. Un numero che s’appoggia su due anni e che si pone, necessariamente, la domanda su cosa siamo stati e cosa possiamo aspettarci. Un futuro dove le parole vecchio e nuovo hanno rovesciato il loro significato. Quello che per decenni ci ha abituato a “guardare avanti”, espressione obsoleta, e passi, brutta in italiano, e passi, ma ormai bugiarda. E questo è invece un punto centrale per un popolo che intende, o si illude di farlo, progettare il futuro dell’Italia con abuso di ingredienti e varianti di ricette già viste, sentite e bocciate dalla storia.

Abbiamo intitolato la nostra copertina “Felice anno vecchio”. Il significato di questo titolo, però, non è banalmente immaginare un 2017 con più problemi dell’anno che si è appena chiuso. Questo sarebbe un’ovvietà. Significa analizzare più nel profondo la grande retromarcia, meglio ancora sarebbe dire “il grande rinculo”, che la non-immaginazione italiana ed europea hanno prodotto come reazione in ogni campo. Una nostalgia che invade lo spazio che fu della speranza. Lo fa nel pensiero, nella musica, nella rappresentanza politica, nell’arte. E lo fa pure con la rabbia di chi si rifugia nel sommo grido del “No”, in difesa di valori magari evaporati, ma che risuonano come panacea ai mali inesplorabili di un oggi che sembra dire che tutto finirà in polvere.

Ecco che Il Dialogo leopardiano, nel tono più serenamente disilluso rispetto a tante Operette, deve essere bruscamente interrotto dopo la risposta del passeggere citata all’inizio: Signor no, non mi piacerebbe. Perché il processo cui stiamo assistendo è opposto al sentimento che spingeva l’uomo, in ogni caso, ad andare avanti, a immaginare come attraente l’ignoto e quindi la vita futura. Oggi non siamo satolli di ciò che conosciamo, ma di ciò che ci promettono di immaginare. Proprio come un fucile dopo aver sparato, ci lasciamo catapultare all’indietro dalla forza cinetica del colpo, cadiamo a terra senza avere colpito il bersaglio, ci troviamo indietro rispetto al punto di partenza e ci spingiamo a frugare nel passato, nella nostra consumata adolescenza democratica, alla ricerca di modelli di vita ormai andati per rispondere al caos globale che sta scoperchiando i limiti dei nostri governi, del nostro pensiero, della nostra economia. Finendo per rievocare soluzioni desuete come la casa-nazione.

Succede perché il cittadino consumatore cui l’Occidente si rivolgeva è oggi un cittadino consumato. Si sente in diritto di un risarcimento sociale. È soggetto di massa senza bisogno di un partito. È rete senza bisogno di cose da dire. La formazione di un’identità e di una coscienza politica si è trasformata in adesione a una coscienza collettiva, piena di cimeli. E in questo scenario i due cavalli che trainavano la democrazia, ovvero la rappresentanza (fotografia dell’oggi) e il riformismo (visione del domani) diventano perdenti. Contrapposti a un futuro che viene dal passato, in veste di neo-nazionalismo, di populismo, di perdita di valori e dunque di distanze fra destra e sinistra. Ricompaiono gli uomini “spicci”, nemmeno più forti, scelti a tempo determinato nella convinzione che la “speranza” possa solo deludere, mentre la “nostalgia” condurci su isole conosciute.

Una via d’uscita? La cerchiamo anche noi, con un racconto di Prima pagina su che fine hanno fatto il “vecchio” e il “nuovo”. Su dove sia nascosta l’immaginazione delle liberaldemocrazie, che avrebbero il dovere di distruggere il proprio passato recente, sinonimo di “scontro fra poteri contrapposti”, per rivestirsi del ruolo originale: scontro fra “modelli di sviluppo alternativi”. Solo così il Dialogo potrà riprendere dal punto in cui s’è fermato. Il punto in cui, di fronte al poeta, non c’è più un uomo capace di immaginare.
 

(Su Gentile Concessione del Setimanale "L'Espresso")

 

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